by Sergio Segio | 15 Febbraio 2014 23:00
Il 14 è un numero meraviglioso e allo stesso tempo terribile per i bahraniti che lottano per uguaglianza e diritti. Il 14 febbraio di tre anni fa, sull’onda delle rivolte popolari divampate in Egitto e Tunisia, migliaia di cittadini occuparono Piazza della Perla a Manama e diedero vita a un accampamento di tende simile a quello di Piazza Tahrir al Cairo. Giorni che diedero frutti eccezionali, che videro riuniti in quelle tende di dibattito e programmazione non solo attivisti della maggioranza sciita — che lotta per l’uguaglianza con la minoranza sunnita, base del consenso della monarchia assoluta di re Hamad bin Isa al Khalifa – ma anche tanti esponenti sunniti della società civile. Tutti uniti nel disegnare un futuro di cambiamento per questo piccolo arcipelago del Golfo, sul quale grava la pesante ombra della vicina Arabia saudita. Il 14 del mese successivo furono mille soldati sauditi, assieme a unità speciali degli Emirati, che diedero alle forze di sicurezza di re Hamad il sostegno decisivo per spazzare via le tende e le proteste di Piazza della Perla. I morti furono decine, i feriti centinaia. La testa dell’opposizione fu tagliata di netto con arresti e condanne durissime.
La repressione non si è mai fermata, nonostante sulla carta, da oltre un anno, sia in corso un “dialogo nazionale” tra il principe ereditario e l’opposizione moderata per aprire una via d’uscita politica alla crisi in Bahrain, paese stretto alleato degli Stati Uniti (ospita la base della V Flotta) e avamposto delle petromonarchie del Golfo nello scontro, per ora a distanza, con l’Iran. Venerdì un poliziotto è stato ucciso in un attentato misterioso nel villaggio sciita di Dair, alla vigilia delle manifestazioni che hanno portato nelle strade di Manama 15mila persone per il terzo anniversario della “Rivoluzione del 14 febbraio”. «Il corteo ha visto insieme tutte le anime della rivoluzione del 2011 – riferiva ieri la nota giornalista e attivista Reem Khalifa, raggiunta via telefono dal manifesto –. La manifestazione ha avuto un carattere pacifico, la polizia però si è schierata con forze ingenti e con automezzi dai quali si possono lanciare decine di candelotti di gas lacrimogeno nello stesso momento». Una pioggia di tear gas che è caduta sui partecipanti quando gruppi di “Giovanidel 14 febbraio”, alcuni il volto mascherato, hanno innalzato il livello della protesta cercando lo scontro fisico contro la polizia. In un comunicato emesso al termine del rally, l’opposizione ha chiesto al governo di rilasciare i prigionieri politici, di sospendere i processi in corso, per promuovere invece la «riconciliazione nazionale» e l’elezione di un Parlamento vero.
«La rivolta in Bahrain era e resta popolare e pacifica, volta ad ottenere l’instaurazione di una monarchia costituzionale – ha aggiunto Reem Khalifa — Tuttavia dopo tre anni di proteste e manifestazioni represse nel sangue dalla polizia (un centinaio i morti, ndr), di arresti e condanne pesanti degli oppositori e della mancanza di qualsiasi riforma politica vera, non pochi bahraniti sono stanchi e delusi. I giovani premono per uno scontro più aperto». Il sovrano ha ribadito, l’ultima volta due giorni fa, il suo impegno per un “processo di riforme” ma alle sue parole danno credito ormai solo i sunniti più militanti che reggono la monarchia. D’altronde re Hamad ha anche sottolineato che il Bahrain resta strettamente legato al Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), le sei petromonarchie sunnite schierate (ad eccezione dell’Oman) contro l’Iran sciita. Parole che riaffermano la visione che il re continua ad avere delle proteste come di un “complotto iraniano”. Il non riconoscimento della vera natura della rivoluzione del 14 febbraio resta uno degli ostacoli principali sulla strada della soluzione politica della crisi.
I leader storici e moderati dell’opposizione fanno fatica a contenere coloro che chiedono una battaglia più dura, anche violenta, contro la monarchia. «No alla resa, no al dialogo» scandiscono i più giovani che usano i vicoli del mercato di Manama durante le manifestazioni. I social network servono a organizzare i raduni ma anche a contestare chi è troppo soft con la monarchia. Si moltiplicano gli appelli agli sciiti a resistere anche con la forza ai raid delle squadracce sunnite.
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