by Sergio Segio | 11 Febbraio 2014 9:42
ROMA — Dopo un crollo dell’economia del 9%, una delle poche certezze è che l’Italia non può più andare avanti così: tra non molto un euro ogni quattro prestato dalle banche alle imprese sarà una partita «deteriorata», con vari problemi di rimborso. Negli ultimi due anni il credito che fa respirare il tessuto economico è collassato da 900 a circa 800 miliardi e, senza interventi, può solo contrarsi ancora generando nuova asfissia per i piccoli imprenditori e i loro addetti. Con questi problemi, malgrado la danza della pioggia dei politici, una ripresa capace di rivitalizzare il Paese dal cielo non cadrà mai.
Servono interventi radicali per far ripartire il credito, anche a costo di mettere in gioco risorse pubbliche. E il governo ci riflette seriamente, sia al ministero dell’Economia che a Palazzo Chigi.
Ieri Fabrizio Saccomanni ha dato il suo assenso alle parole di Ignazio Visco, di cui è stato direttore generale a Bankitalia fino a nove mesi fa. Il governatore sabato scorso aveva aperto all’ipotesi di una «bad bank di sistema», una società-veicolo che compri dalle banche i crediti inesigibili o in difficoltà. Ciò — ha spiegato Visco — libererebbe i bilanci degli istituti di credito permettendo loro di sostenere di più i nuovi investimenti e l’occupazione. Il ministro dell’Economia però ha aggiunto una precisazione: «Il governo — ha scritto in un comunicato — ritiene che a tale scopo non sia necessario l’impiego di risorse pubbliche nazionali o comunitarie».
Con queste parole Saccomanni intende dire che non è allo studio alcun esborso. Il governo non intende di creare nuovo debito pubblico per aiutare gli istituti privati a risolvere i loro problemi. Esistono però altri modi di usare il bilancio dello Stato per evitare che banche contribuiscano ancora a lungo alla paralisi di un Paese ormai allo stremo. Il sistema più immediato è l’attivazione di coperture o garanzie pubblica per permettere un deflusso più rapido dei crediti in default dalle banche verso una «bad bank» di sistema: una società-veicolo che compri e gestisca a scopo di profitto i portafogli deteriorati del sistema creditizio. Scatterebbe così un ingranaggio di mercato, ma incoraggiato e reso più facile dall’esistenza di una rete di protezione pubblica alla base del meccanismo.
Gli anni seguiti al collasso di Lehman sono ricchi di esempi di garanzie dei governi utilizzate per disincagliare le banche e metterle in grado di funzionare per far ripartire l’economia. Negli Stati Uniti, con la copertura di un maxi-fondo del Tesoro, la Federal Reserve ha comprato dalle banche mutui subprime per centinaia di miliardi; alla fine non è mai stato necessario far scattare la garanzia e la banca centrale americana ha realizzato forti plusvalenze su quei titoli, che poi sono tornate ai contribuenti. In Irlanda e in Spagna le garanzie pubbliche hanno sostenuto la forza di fuoco finanziaria dei veicoli il cui compito era aspirare incagli e sofferenze dai libri contabili
degli istituti. Questi sistemi di assicurazione pubblica, in genere mai utilizzata, sono stati provati anche da Paesi meno colpiti dalla crisi: in Germania per esempio il governo di Angela Merkel ha messo a rischio 290 miliardi di euro per far fronte alla ripulitura del bilancio delle banche.
In Italia, al quinto anno della recessione più lunga, il problema non è mai stato affrontato. Le banche stesse, finché potevano, hanno rinviato e sopito. Solo
quattordici mesi fa, quando ormai l’onda lunga dei crediti in default avanzava da un pezzo, il direttore dell’Abi Giovanni Sabatini scriveva: «Il vero freno all’attività creditizia non risiede nella quantità di crediti problematici». L’Abi parlava allora di «complessiva tenuta e ottima qualità di fondo dei portafogli delle nostre banche».
Da allora sono stati persi altri 50 miliardi di crediti alle imprese, decine di migliaia delle quali hanno chiuso per sempre. Le partite deteriorate, sulla spinta dell’inerzia, sono salite dal 18 al 24% degli attivi bancari. Fosse stato ammesso e affrontato allora il problema, oggi forse una «bad bank» funzionerebbe da un pezzo e il credito alle imprese sarebbe meno avaro. Ora invece il Tesoro e Palazzo Chigi sono nelle fasi iniziali di una riflessione che studia anche gli esempi degli altri Paesi. Decisioni già prese non ce ne sono. Uno dei modelli teorici ai quali si guarda da vicino, prevede una garanzia pubblica sulle emissioni di obbligazioni con le quali una «bad bank» — se possibile, privata — si finanzia sul mercato. Con quelle risorse la società-veicolo potrà comprare dalle banche i crediti in default a prezzi già svalutati, impacchettarli in portafogli di titoli e venderli sul mercato in cambio di un certo rendimento. La «bad bank» dovrebbe pagare lo Stato per la garanzia e mirare a un profitto sulla differenza fra i prezzi di acquisto e vendita delle sofferenze. A loro volta le banche, liberate dagli oneri di gestione dei vecchi prestiti falliti, potranno farne di nuovi per rilanciare la loro attività. Resta da capire se un’operazione così sia alla portata di un governo incapace per mesi di gestire una rata dell’Imu che vale appena un millesimo del bilancio dello Stato. Ormai però la partita della bad bank «di sistema» è iniziata. Tutte le forze in parlamento e le stesse banche presto dovranno dire la loro: sanno tutti che anche chi si opporrà, dovrà spiegare come altrimenti far arrivare ossigeno alle imprese che danno lavoro in modo convincente. Le spiegazioni di quattordici mesi fa, a questo punto, sembrano del secolo scorso.
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