Arrestati i sindacalisti che protestavano contro la Tav
La nota è condivisa dal Trade Union Advisory Commitee (Tuac), organo rappresentativo dei sindacati nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (Ocse).
I punti contestanti sono diversi. A preoccupare il mondo internazionale del lavoro e motivo principale della visita nella penisola sono gli sviluppi dei 22 giorni di sciopero dei ferrovieri contro la paventata privatizzazione della Korea Railroad Corp, la società ferroviaria pubblica meglio conosciuta con il nome di Korail. Lo scorso 17 gennaio l’arresto di quattro leader sindacali, tra cui Kim Myung-hwan, segretario dell’organizzazione dei ferrovieri, è stato l’ultimo in ordine di tempo di una serie iniziata a metà dicembre, quando si era nel pieno della protesta. Un episodio già avvenuto quattro settimane prima. In totale sono almeno 35 gli ordini d’arresto emanati durante la protesta andata avanti dal 9 al 31 dicembre. Sono invece almeno un migliaio i lavoratori cui sono toccate sanzioni disciplinari per aver partecipato alle manifestazioni (nella foto reuters). Al centro della disputa c’è il piano per creare una sussidiaria della Korail, che gestirà la nuova tratta ad alta velocità che partirà da Suseo, nella parte meridionale della capitale.
La fine della protesta è stata dichiarata soltanto dopo la decisione di istituire un comitato parlamentare allo scopo di garantire che la nascita della nuova società non sfoci nella privatizzazione dei servizi.
Obiettivo quest’ultimo che emerge tuttavia da alcuni documenti pubblicati lo scorso 7 gennaio dal quotidiano Hankyoreh, in cui si parla di introduzione della «concorrenza del settore privato, aprendo le linee in perdita della Korail e nuovi progetti per le linee metropolitane a società pubbliche o private». Per il giudice che ha emesso gli ultimi mandati, le responsabilità dei sindacalisti sono state accertate e ci sono ragioni sufficienti per temere che possano scappare o distruggere le prove.
Per la delegazione internazionale gli arresti sono al contrario una violazione dei diritti dei lavoratori, in particolare di quello allo sciopero. Senza contare che la Korail intende chiedere ai sindacati di ripagare le perdite subite nelle tre settimane di protesta. Un conto da diversi miliardi di won, oltre 15, pari a 14,5 milioni di dollari. Cause intentate allo scopo di mandare in bancarotta le organizzazioni sindacali, sottolinea l’Ituc, per cifre che i lavoratori non possono pagare. In Corea del Sud si è di fronte alla mancanza di dialogo, e della possibilità di dialogo, tra governo e corpi sociali, ha spiegato Antonio Fiori, Korea Foundation Endowment Chair all’Università di Bologna. Fiori inserisce la vicenda in un quadro più ampio, riguardo la tenuta democratica del Paese.
«Non c’è il rischio di autoritarismo», precisa, «tuttavia si tratta di una questione di qualità della democrazia», che la Corea del Sud conosce da 25 anni.
Un fenomeno emerso già nella passata amministrazione guidata da Lee Myung-bak, esacerbato con l’arrivo alla Casa Blu della presidentessa Park Geun-hye. Ciò che preoccupa sono le intrusioni antidemocratiche nel rapporto tra governo e società. Un deficit democratico venuto a galla con lo scandalo che ha investito l’agenzia d’intelligence coinvolta in una campagna online di delegittimazione dei candidati dell’opposizione, per orientare il voto delle presidenziali di dicembre 2012 a favore di Park. Una violazione senza precedenti, commenta Fiori che ricorda studi indipendenti secondo cui, senza la manipolazione del Nis, il risultato elettorale sarebbe potuto essere a favore del candidato democratico Moon Jae-in. In tema di lavoro i rapporti tra la Casa Blu e i sindacati preoccupano anche Organizzazione internazionale del lavoro. Membro dell’Ilo dal 1991, Seul non ha ancora ratificato quattro delle otto convenzioni fondamentali dell’organizzazione, le due sui lavori forzati e le due sulla contrattazione collettiva e la libertà d’associazione, quest’ultima, ricorda Fiori, legata anche al mancato processo di inclusione dei lavoratori emigrati, cui non è permesso formare sindacati.
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