Ambizioso o sbruffone il dilemma del leader

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E sarà pure figlia di un complesso di inferiorità, un malessere, ma è la forza oscura che lo spinse a candidarsi sindaco, solo contro tutti, sbeffeggiato dal segretario della Cgil che gli disse: «A vincere sarà il mio uomo ». Vinse Renzi e l’altro arrivò ultimo.

Ha detto Renzi giovedì in direzione: «Se non avessi rischiato, ora sarei al secondo mandato da presidente della Provincia». E certo, la frase «c’è un’ambizione smisurata che bisogna avere, la deve avere il segretario del Pd come l’ultimo delegato» esprime benissimo quella volontà di potenza che fece morire in manicomio un ambizioso ben più ambizioso di Renzi, che in fondo ancora non ci ha parlato di Superuomo. E però ditemi se quello che segue non è un Renzi nietzschiano: «Una volta, un pezzo grosso del mio partito mi disse: “Ciccio, a me hanno insegnato che a trentaquattro anni si rispetta la fila”. Disse proprio così: “si rispetta la fila”. Come al supermercato, quando tutti abbiamo da svuotare il carrello. Uno per volta, rispettando la fila. Solo che facendo così in politica non si svuota il carrello, si svuota l’entusiasmo. Decisi che non volevo (e ancora oggi non voglio) fare il pollo di batteria. Non volevo che gli altri decidessero i tempi. Non volevo stare alle loro regole, le regole di una generazione che ha già dato tutto quello che poteva dare». Come si vede, qui l’ambizione è la rottura degli argini stretti da parte di una personalità straripante, un ingorgo di pulsioni che dal cervello gli arrivarono alla bocca: «Rottamazione».
Si sa com’è andata: la volgarità dell’ambizione ostentata ha trasmesso un sapore autentico, Renzi è sembrato simpatico e sanguigno, con quegli incredibili pantaloni attillati e il giubbotto di pelle a chiodo in opposizione ideologica. La sua smania, la sua fame da lupo nel mondo della sinistra è diventata l’uscita collettiva dal soffocamento da nomenklatura, l’illusione dell’ossigeno tra gli odori stagnanti e irrespirabili, e ora la possibile catarsi del-l’Italia che davvero non ne può più di ambizioni costrette a muoversi nell’ombra, malcelate sotto cumuli di ipocrisia, al riparo dal rapporto di verità con l’opinione pubblica. Via, diciamolo, sarebbe bello sentir dire a Romano Prodi: «Io vorrei fare il presidente della Repubblica, credo di avere le qualità adatte».
Insomma, l’ambizione esibita ha difetti vistosi che forse oggi servono all’Italia più dei meriti oscuri. Dunque non scandalizzatevi se ora vi elenco tutti i virtuosi vizi dell’ambizione con cui Renzi sta seppellendo la doppiezza clericale del Paese di cui Andreotti fu al tempo stesso lo statista e il diavolo. La sbruffoneria, innanzitutto: «Un uomo solo al comando è bellissimo». La presunzione, poi: «A trentotto anni sono pronto per fare tutto». E l’impudenza: «Se andiamo alle elezioni li asfaltiamo».
Ma non finisce qui, perché l’arroganza dello sfoggio d’ambizione, «vincere non è una parola fascista», e la spocchia verso il vecchio mondo della sinistra, «Fassina, chi?», seppellisce anche l’altra doppiezza, quella comunista, che ha fatto di D’Alema l’innocente al quale si può rimproverare
tutto e il colpevole al quale non si può attribuire nulla. Certo, Renzi si fa le lampade, come si legge nella biografia autorizzata, e speriamo sia perché «l’ambizione — secondo Montaigne — non ha il pallore della pavida gentucola» e non perché, come ha sostenuto — ahinoi — Berlusconi, l’abbronzatura è la bellezza di Obama, il quale «ha vinto perché somiglia a me». Come si vede, si corrono seri rischi a frequentare apertamente l’ambizione che però, nascosta nei baffi o nella gobba, vale a dire relegata nel sottosuolo, nel doppio fondo, nel doppio stato, nella doppia vita e nella doppia identità, ha espresso l’impenetrabilità di quella lorda pozza che è stata la storia politica italiana del dopoguerra.
Ha confessato: «Non mi piace perdere neppure alla Playstation». E poiché la voce latina, “ambitio”, non rimanda a nessuna qualità dell’anima, ma al “girare attorno”, Renzi è movimentista, vale a dire tattica senza strategia, parole incendiarie e orizzonti vaghi, l’ambizione nomade che gli fa prendere il Comune parlando di Provincia, e quando divora il partito è già a Palazzo Chigi, e chissà dove lo porta in questo momento il cuore mentre tutti lo aspettiamo al governo. È questa “l’ambitio”: l’atto fisico del darsi in giro «per brigar gli onori». Anche il linguaggio del movimentismo è un girare attorno, di corsa: «fuochi d’artificio», «un rischio pazzesco», «mi gioco l’osso del collo», «rivolterò l’Italia come un calzino», parole grosse, come furono quelle dell’altro movimentista gradasso e ambizioso d’Italia, Bettino Craxi, purtroppo finito male perché, come aveva scritto nel 1916 Antonio Gramsci recensendo il Macbeth del grande Ruggero Ruggeri: «L’ambizione ha prodotto in lui questa sicurezza: nessuna sanzione terrena potrà colpire i suoi delitti». E andando più indietro fu apertamente ambizioso Giovanni Spadolini, primo presidente del Consiglio, narciso e inverecondo come Renzi, ma con in testa la grande idea di trasformare l’Italia — nientemeno — in un Paese laico. Anche Spadolini fu toscanaccio come lo è Matteo e non toscanuccio come Enrico Letta, nel senso che si impenna ma non piagnucola. Renzi, proprio come Spadolini che arrivava ai calci, maltratta con amore i suoi collaboratori: Dario Nardella, ora designato sindaco di Firenze; il fedele Luca Lotti, detto il Lampadina, letteralmente menato sul campo di calcio; Marco Agnoletti, il povero portavoce che lo sopporta con abnegazione. E Renzi è sboccato, batte i pugni, la sua ambizione è anche esuberanza fisica, gli è persino capitato di pestare letteralmente i piedi ai cronisti, come un La Russa qualsiasi: lo fece a David Allegranti, prima firma del Corriere fiorentino, che si era intrufolato dove non doveva stare. Il toscanaccio fa l’irascibile e il maligno e mai il carino come il toscanuccio, ti tira indifferentemente una schioppettata in fronte o una pugnalata alla schiena, sempre convinto, di nuovo come Macbeth, che a lui, solo a lui, in nome della grandiosità sarà comunque perdonato tutto, anche l’avere detto «grazie Enrico» subito dopo averlo assassinato.
L’ambizione senza la dissimulazione democristiana e comunista, dunque. Non quella fredda, geometrica e di testa degli arrampicatori di Stendhal, l’ambizione che mancò al maresciallo Grouchy che fece perdere la battaglia di Waterloo a Napoleone perché, scrisse il già renziano Stefan Zweigg, «il momento decisivo, che così di rado si presenta nella vita dei mortali, si vendica con crudeltà di chi, eletto senza merito, non sa approfittare dell’occasione propizia».


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