«L’Europa non boicotta Ma Israele ora rischia»

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TEL AVIV — Nel 1976 un giovane danese decide di passare cinque mesi in Israele a lavorare in un kibbutz. È attratto dalla vita in comune, la condivisione socialista: fatica nei campi sotto la protezione delle guardie armate di mitra, dall’altra parte del confine sparano colpi di mortaio. Il Libano non è lontano, Naot Mordechai sta sulle colline dell’Alta Galilea.
Adesso la vista dalla finestra al sedicesimo piano del grattacielo a Tel Aviv racconta un’Israele diversa da quella di quarant’anni fa, più ricca, meno egualitaria: la nazione edificata sull’organizzazione pianificata delle comunità agricole corre con il disordine creativo delle start-up. «Il cambiamento è stupefacente, io ho conosciuto un Paese quasi povero». Lars Faaborg-Andersen sta seduto nell’ufficio dell’ambasciatore dell’Unione Europea, è tornato alla fine dell’anno scorso per affrontare uno degli incarichi diplomatici più complicati in questa fase di relazioni tormentate tra Israele e Bruxelles.
Fin dalle origini a Naot Mordechai, il kibbutz del suo viaggio da ragazzo, è stata installata una fabbrica che produce sandali e scarpe. La Teva-Naot ha aperto un outlet nella zona industriale di Gush Etzion, dentro una colonia. Alcuni gruppi ne chiedono il boicottaggio.
«L’Unione Europea non ha intenzione di boicottare i prodotti legati agli insediamenti. Certo a questi beni non applichiamo i dazi agevolati previsti dagli accordi con Israele perché per noi le colonie sono illegali e non sono parte di Israele. Va avanti il progetto di etichettare le merci provenienti dagli insediamenti, così i consumatori possono essere consapevoli dell’origine».
Yair Lapid, il ministro delle Finanze, ha avvertito che il fallimento dei negoziati con i palestinesi comporterebbe sanzioni economiche per Israele.
«Come ha ribadito Martin Schulz, il presidente dell’Europarlamento, l’Ue non ha intenzione di imporre un embargo. Quello che temo per Israele — se le trattative falliscono e le costruzioni negli insediamenti continuano — è l’isolamento. Lo dico da amico, non è una minaccia. Già ora alcune banche e alcuni fondi pensione stanno decidendo di disinvestire da compagnie israeliane coinvolte nelle colonie. Se la situazione non cambia, è un fenomeno destinato a crescere».
L’intervento di Schulz mercoledì in parlamento a Gerusalemme ha spinto Naftali Bennett, il ministro dell’Economia, e i deputati del suo partito ultranazionalista a lasciare l’aula.
«Il discorso è stato di grande sostegno a questa nazione, decisamente pro-israeliano. Il presidente Schulz ha sollevato una questione o meglio ha riportato una domanda che gli è stata rivolta da un ragazzino palestinese: perché gli israeliani hanno diritto a consumare 70 litri di acqua al giorno e noi solo 17? Ha ammesso di non aver verificato le cifre, ma le sproporzioni nell’accesso e nell’utilizzo sono quelle».
Yuli Edelstein, presidente della Knesset, ha criticato Schulz: «Le dichiarazioni erronee fatte ogni giorno dagli europei forniscono munizioni a chi vuole delegittimare Israele».
«Non capisco come si possa paragonare una domanda legittima che riguarda le condizioni di vita con la campagna aggressiva del BDS (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni), un movimento che non vuole la soluzione dei due Stati ma punta a un solo Stato bi-nazionale».
Nei negoziati con John Kerry, il segretario di Stato americano, gli israeliani vogliono ottenere garanzie per la sicurezza.
«Il Paese è circondato da una situazione caotica. Capisco benissimo le preoccupazioni: significa prendere una decisione che potrebbe esporre a nuovi rischi. Cito la frase che preferisco detta da Shimon Peres, il presidente israeliano: “Ci sono due cose che non si possono fare senza chiudere gli occhi, l’amore e la pace”. Gli israeliani devono chiudere (un po’) gli occhi consapevoli che avranno sempre l’Europa al loro fianco. L’alternativa — niente accordo, resta l’occupazione — è peggiore: l’impossibilità di mantenere un Paese ebraico e democratico».
Il governo di Benjamin Netanyahu chiede proprio che i palestinesi riconoscano Israele come Stato ebraico. Da sinistra Ari Shavit commenta sul quotidiano Haaretz : «L’accordo tra noi e i palestinesi è sostanzialmente a senso unico. Noi concediamo — territori e diritti — loro ricevono. Con il riconoscimento di Israele come Stato ebraico darebbero in cambio l’unico regalo che possono offrire: legittimità».
«Mi sembra un buon punto. Quando verrà firmato un accordo tutti devono essere certi che la questione è superata: questo è mio, quello è tuo, ci sono i confini. Non arriveranno altre rivendicazioni, come il ritorno dei rifugiati. Non può essere che a una settimana dall’intesa i palestinesi dicano: a proposito, c’è anche la città di Haifa da discutere».
Davide Frattini


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