by Sergio Segio | 14 Febbraio 2014 9:54
«Sa cos’ho fatto stasera prima di tornare a casa? Sono andato a comprare le figurine Panini ai miei figli. È un’abitudine che avevo interrotto. Le figurine dei calciatori sono per me il ritorno alla normalità». Così l’attor giovane della vecchia compagnia, Enrico Letta, esce di scena e cede il posto al rivale.
Ambizione smisurata, embé? Matteo Renzi prova a essere se stesso anche nel giorno in cui, come gli rinfacciano le rare voci dell’opposizione interna, «si muove in sintonia con il Palazzo anziché con la gente». E quindi rivendica la staffetta, che sembra contraddire non solo le sue affermazioni ma soprattutto il suo stile: «Hanno scritto dell’ambizione smisurata di Matteo Renzi. Vi aspetterete che io smentisca. Invece non lo faccio. Ognuno deve avere un’ambizione smisurata, dal segretario del Pd all’ultimo delegato. Perché l’Italia non può continuare a vivere nell’incertezza e nell’instabilità. Vi chiedo tutti assieme di uscire dalla palude…».
La «palude» sarebbe il governo di Enrico Letta. Che ieri però ha rinunciato a combattere. Troppo tardi ha tentato la «sortita» che gli consigliava il suo mentore Romano Prodi. Nella Direzione pd, l’«Impegno Italia» presentato il giorno prima non è stato neppure preso in considerazione. «Contributo per il dibattito» lo liquida Renzi. L’unico a parlarne è Ermete Realacci, lamentando che non ci siano «le cose che interessano alla gente, ad esempio non c’è il treno in bilico sulla Riviera Ligure…». Ma fin dal mattino presto Letta ha realizzato quel che appariva chiaro da giorni: la battaglia era perduta prima di cominciare. Alle 8 i capigruppo alla Camera Speranza e al Senato Zanda, con il portavoce della segreteria Guerini, entrano a Palazzo Chigi e gli chiedono di dimettersi, senza costringere il partito a sfiduciarlo. Letta rifiuta, ed è davvero l’ultima umiliazione la voce che trapela — subito smentita — secondo cui Guerini a nome di Renzi gli avrebbe offerto il ministero dell’Economia nel nuovo governo. Il premier però decide di non partecipare alla Direzione. Al partito manda una lettera: nessuna tragedia; non sarà una caduta pubblica. Letta segue gli interventi e la votazione in streaming, sul suo computer di Palazzo Chigi. I suoi fedelissimi escono dal Nazareno prima del verdetto: 136 sì, 16 no (gli uomini di Civati), due astenuti, Stefano Fassina e Margherita Miotto. Un minuto dopo, alle 18 e 14, ecco il comunicato di Letta: stamattina, nel giorno di un San Valentino amarissimo, dopo l’ultimo consiglio dei ministri, salirà al Quirinale per dimettersi.
Giorgio Napolitano ha badato a non entrare nelle dinamiche del Pd. Ha risposto no agli ambasciatori di Renzi che chiedevano un suo intervento: decidete voi, al partito; lasciate fuori la presidenza della Repubblica. In sostanza, però, Napolitano ha rinunciato a difendere Letta, dopo aver verificato che gli alleati di governo non si sarebbero opposti al cambio. Il presidente ha fatto sapere anche che non ritiene necessario un estremo passaggio in Parlamento del governo morente; domani si avvieranno le consultazioni, e dopo che l’incarico verrà affidato a Renzi i tempi saranno serrati.
Alle 18 e 30 Alfano convoca una conferenza stampa per alzare il prezzo, ma in sostanza molla Letta e dà via libera al suo avversario: no a un governo di sinistra; sì a un «governo di grande ambizioni». Forse senza accorgersene, il leader del Nuovo centrodestra usa le stesse parole di Renzi, come a riconoscere una subalternità proprio nel momento in cui vorrebbe segnare un punto. Casaleggio, ormai apertamente capo dei Cinque Stelle, e Brunetta chiedono che il presidente del Consiglio si dimetta in Parlamento; ma difficilmente saranno accontentati.
La Direzione pd non è stata l’atteso psicodramma. Renzi ha cambiato Smart: ieri blu, oggi grigia. Prende la parola alle 15 e 32, con mezz’ora di ritardo, e parlerà 25 minuti. Spegne il telefonino come fa solo dal parrucchiere, dopo aver mostrato l’sms arrivato da La 7 che gli chiede di aspettare ancora qualche secondo che finisca la pubblicità. Parte con una citazione — «inizi a diventare grande solo quando cominci a fare anche le cose che non ti piacciono» — e tutto il suo discorso, come il dibattito a seguire, sarà segnato da una vena lirica: «Dobbiamo prendere il vento in faccia, e il vento in faccia è il suono di un silenzio sottile»; «si deve vivere con semplicità e pensare con grandezza»; non è una staffetta, «le staffette vanno sempre nella stessa direzione, noi vogliamo provare a cambiare l’orizzonte»; e infine la citazione «del poeta dell’Attimo fuggente », Robert Frost: «Due strade trovai nel bosco e io scelsi quella meno battuta…». Più prosaicamente, in platea gira la foto della giraffa Marius colpita alla nuca e data in pasto alle fiere, che un hashtag spietato accosta al povero Letta. L’unico che ha voglia di scherzare è il battutista Civati: «Sembriamo una via di mezzo tra la Prima Repubblica e Shining …». Realacci, implacabile: «Nell’Impegno Italia non c’è Modena sott’acqua!».
Per Letta, Renzi ha poche parole. Nel ringraziarlo, lo archivia. Dice di essere consapevole del rischio; «ma forse non rischia un artigiano oppresso dal fisco? Non rischia la madre precaria col marito disoccupato? Non rischia la classe imprenditoriale quando la prima azienda italiana se ne va nel silenzio di tanti di noi?», a cominciare dal premier si intende. Il cambio è presentato come una necessità e un’urgenza: o si va a votare, ma il Colle non vuole e poi non c’è ancora la legge elettorale; oppure si fa un governo di legislatura, fino al 2018. Napolitano è nominato una sola volta, a proposito delle «accuse ingiuste e strumentali di essere andato oltre la sua funzione»: come a ricordare che il presidente è sotto attacco, e assicurare che il Pd lo difenderà. Nessun cenno al programma del nuovo governo, se non un cambiamento radicale in tema di lavoro, fisco, burocrazia. «Mi rendo conto del rischio che corro. Ma se non avessi mai rischiato starei ancora al secondo mandato di presidente della provincia di Firenze…».
La vena lirica contagia i sostenitori. Paola Concia si è preparata una citazione di Emily Dickinson: «Non conosciamo mai la nostra altezza finché non siamo costretti ad alzarci…». Enzo Bianco evoca i «capitani coraggiosi della marineria siciliana, che nei banchi di nebbia gridavano: “Friscamu, fischiamo con la sirena, e avanti tutta!”». Arriva un’agenzia: «Letta annulla la visita alla regina Elisabetta il 24 febbraio». Zanda evoca «l’ambizione di partito». Cuperlo dice che sarebbe meglio si pronunciasse il Parlamento o almeno i gruppi parlamentari, però insomma faccia Renzi come crede. Fassino non si rassegna allo streaming e parla nella lingua morta delle vecchie direzioni: «Serve una discontinuità programmatica nell’azione politica, negli assetti istituzionali, nella configurazione degli assetti della maggioranza…». Altra battutona di Civati: «Siamo una Dc splatter!». Realacci infierisce: «Nell’Impegno Italia non c’è la green economy!».
È un oscuro membro della direzione, Paolo Cosseddu, a citare lo scambio cui pensano un po’ tutti: i parlamentari abbandonano Letta per Renzi, ed evitano di andare a casa con il voto anticipato. Persino D’Attorre, che finora aveva recitato la parte dell’anti-Matteo, lo definisce «il più legittimato». De Luca sostiene che il governo, di cui fa parte, ha fatto «cose interessanti» ma anche «cose che non stanno né in cielo né in terra». Il sindaco di Roma Marino, reduce dai successi dei giorni dell’alluvione, esce spingendo la sua bicicletta. Civati, l’unico apertamente ostile alla nascita del governo Letta, ora è l’unico a difenderlo: «Siamo in difficoltà e se Berlusconi se ne accorge ci mette nel sacco per l’ennesima volta». Realacci maramaldeggia: «Non c’è l’agrindustria!». La Concia continua a poetare: «E se siamo fedeli al nostro compito, arriva al cielo la nostra statura…».
Letta annuncia la resa e riunisce i collaboratori per il brindisi d’addio. «Tutte le dichiarazioni che mi hanno attribuito in queste ore sono false» chiarisce. Non ha definito «offensive» le parole di Renzi, non ha annunciato battaglie interne al partito. «È stata una giornata tranquilla, conclusa dal passaggio in tabaccheria. Quando salii al Quirinale a ricevere l’incarico, nella valanga di messaggi di congratulazione trovai un sms dei ragazzi che mi rimproveravano: avevo dimenticato le figurine dei calciatori. Stasera me ne sono ricordato». Il suo ex dioscuro Alfano rivendica i meriti del governo, in particolare i sessanta latitanti arrestati dal Viminale, e offre un sostanziale via libera a Renzi: a patto che il suo esecutivo non sia troppo di sinistra, si occupi di artigiani e commercianti e faccia «grandi cose». Ma è Vincenzo De Luca a trovare la sintesi della giornata: «Se il solo fatto di avere un nuovo leader riuscirà a cambiare il clima di depressione, di ripiegamento, di sfiducia totale, allora sarà un presupposto per affrontare le sfide tremende che abbiamo di fronte a noi». Quanto alle figurine, raccontano i renziani che «Matteo si è già fatto mandare due settimane fa l’album completo dalla Panini».
Aldo Cazzullo
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