Napolitano esclude elezioni «Non diciamo sciocchezze»

by Sergio Segio | 13 Febbraio 2014 8:04

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LISBONA — Presidente, il muro contro muro tra Renzi e Letta non rischia di fare male al Paese? «Io di muri ne so poco. Sono stato chiuso qua dentro, senza notizie fresche dall’Italia». Ma qualcuno sostiene che, se la battaglia dentro il Pd non si risolve in modo positivo, si rischiano le elezioni subito. «Non diciamo sciocchezze».
Questo telegrafico botta e risposta con i reporter poco prima del suo ritorno al Quirinale dal Portogallo, sintetizza il distacco (e forse il disagio) di Giorgio Napolitano sulla prova di forza in corso dentro il Pd per il governo. A Roma mancano ancora un paio d’ore alla conferenza stampa in cui il premier annuncerà un «patto senza scadenze» e il suo proposito di resistere a oltranza, rilanciandosi e sfidando il proprio partito a sfiduciarlo. Il capo dello Stato, impegnato da martedì sera in un vertice trilaterale, conosce lo stretto indispensabile di quel che è successo e sta per succedere. Però, dai flash d’agenzia e da qualche telefonata nelle pause, ha capito che la staffetta, data per «sicura» e già «quasi accettata», sarà un passaggio delicatissimo e difficile, posto che si realizzi. Insomma: siamo ai materassi, come dicevano i picciotti di Cosa Nostra nell’imminenza di uno scontro con un clan rivale destinato a chiudersi soltanto quando ci fosse stato un vincitore e un vinto. Solo che stavolta, se tutto andasse fuori controllo, a perdere potrebbero essere gli italiani. Un quadro preoccupante, per Napolitano. Il quale, nonostante i tentativi di reclutarlo sotto le bandiere di una parte o dell’altra, ripete un avvertimento sul valore della stabilità e un’incitazione a non disperdere o contraddire il lavoro compiuto. Parole che non pronuncia, nel discorso al Cotec Europa davanti al re di Spagna e al presidente portoghese. Ma che riempiono un capoverso del testo distribuito ai cronisti, ciò che per qualche minuto ha alimentato un piccolo — e inesistente — giallo, come se quelle frasi potessero compromettere la sua neutralità e per questo avesse deciso di cassarle. «Dobbiamo essere consapevoli», ha scritto, con una citazione tratta da un messaggio del governatore di Bankitalia Visco, «che la fiducia faticosamente riguadagnata non dev’essere indebolita dal riaccendersi di timori sulla risolutezza dell’Italia a proseguire sulla strada delle riforme e della responsabilità». Traducendo: comunque finisca la partita, il percorso riformatore deve restare al centro dell’azione di governo… e di elezioni neanche a parlarne. «Sciocchezze», le liquida. Già cambiare un governo ha effetti di generale inefficienza indotta, figurarsi se si blocca il sistema andando al voto. L’unica cosa che vale, dunque, è il confronto alla direzione dei democratici. Wait and see, stiamo a guardare, «la parola spetta al Pd», aveva detto il presidente, tagliando corto con le illazioni. Consapevole che, qualsiasi scelta prevalga, dovrà essere certificata al Quirinale. E bisognerà vedere se, nell’ipotesi che la prova di forza vada alle estreme conseguenze, il premier pretenderà un chiarimento dinanzi alle Camere. Sarebbe una soluzione assimilabile, per certi versi, a quella che a suo tempo imboccò Prodi, finendone spodestato. A questo proposito andrebbe ricordato come da vent’anni si sia imposta la prassi della parlamentarizzazione delle crisi, ciò che giova a rendere più trasparenti le responsabilità nel luogo deputato di una Repubblica parlamentare: il Parlamento, appunto. Almeno questo è uno dei meriti del bipolarismo. Prima, si sa, le crisi erano spesso extraparlamentari e rispondevano a un criterio: uscire di scena senza grandi traumi, per essere ripescati in un giro successivo. Mentre adesso si lotta fino all’ultimo anche perché nella vita politica prevalgono cicli più legati alle persone che ai partiti. Ora, nessuno può dire se Napolitano preferisca che il duello approdi in Aula. Tuttavia Letta potrebbe — teoricamente — inseguire la soluzione di una «conta» nelle Assemblee con qualche residua, forse minima, speranza. A quanto risulta, infatti, dopo l’arrivo di Renzi alla segreteria, il Pd ha equilibri differenti tra la direzione e i suoi stessi gruppi parlamentari, formatisi in una fase precedente.
Marzio Breda

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