«La nuova destra, populista e liberista»

by Sergio Segio | 11 Febbraio 2014 9:47

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Poli­to­logo, docente alla facoltà di Scienze sociali e poli­ti­che dell’Università di Losanna, Oscar Maz­zo­leni stu­dia da anni la nuova destra dell’Unione di cen­tro — Sch­wei­ze­ri­sche Volk­spar­tei, nei can­toni di lin­gua tede­sca -, il par­tito che ha pro­mosso il refe­ren­dum anti-immigrati di dome­nica. Tra le sue opere, Natio­na­li­sme et popu­li­sme en Suisse (Pres­ses Poly­tech­ni­ques Roman­des, 2008) e Voi­si­na­ges et con­flits: les par­tis poli­ti­ques suis­ses en mou­ve­ment (Sla­t­kine, 2013).

Pro­fes­sor Maz­zo­leni, sotto la guida di un miliar­da­rio della chi­mica, Chri­stoph Blo­cher, auto­de­fi­ni­tosi come “nazional-conservatore”, l’Udc è diven­tata negli ultimi vent’anni la mag­giore forza poli­tica sviz­zera agi­tando il fan­ta­sma degli immi­grati. Non un par­tito anti-sistema, ma una forza pre­sente nei ver­tici delle isti­tu­zioni, come è possibile?

In Sviz­zera i governi sono for­mati più che sulla base di un pro­gramma spe­ci­fico, sulla com­pre­senza delle diverse forze poli­ti­che. Così, un par­tito può far parte dell’esecutivo ma con­tem­po­ra­nea­mente lan­ciare un refe­ren­dum per modi­fi­care una norma. Si potrebbe dire che da noi si può essere in qual­che modo allo stesso tempo governo e oppo­si­zione. Ed è que­sta pos­si­bi­lità che l’Udc, erede dei par­titi agrari pre­senti nei governi fin dagli anni Venti, ha sfrut­tato per imporre la sua linea di “destra dura”, uti­liz­zando a più riprese i refe­ren­dum (con­tro la costru­zione dei mina­reti e per l’espulsione dei cri­mi­nali stra­nieri, ndr, agi­tando un discorso popu­li­sta su diversi temi e inau­gu­rando una forte per­so­na­liz­za­zione della politica.

Vale per l’Udc il para­gone con le “nuove destre” europee?

In realtà non c’è trac­cia nel suo discorso della cri­tica al sistema dei par­titi, alla “casta”, come invece fa ad esem­pio la Lega dei tici­nesi. L’Udc cri­tica sì l’establishment, ma lo fa com­bi­nando le carat­te­ri­sti­che del par­tito di massa, radi­cato nella società attra­verso cir­coli e gruppi gio­va­nili, con quelle del par­tito media­tico sem­pre in prima fila sulla scena della comu­ni­ca­zione. Una sorta di sin­tesi tra la Lega Nord e Forza Ita­lia. In più, pur essendo stato spesso para­go­nato al Front Natio­nal di Marine Le Pen e ad altre for­ma­zioni simili, appar­tiene a quell’area di par­titi di ispi­ra­zione libe­rale che si muo­vono anche nella sfera gover­na­tiva, all’interno di coa­li­zioni dure­voli. Ed è per que­sta via che si è arri­vati al pieno sdo­ga­na­mento delle sue posizioni.

Per anni il lea­der dell’Udc è stato il miliar­da­rio Blo­cher, men­tre i ver­tici del par­tito van­tano saldi legami con gli impren­di­tori, non tutti gli indu­striali erano però favo­re­voli al refe­ren­dum. Come stanno le cose?

A dif­fe­renza del Front Natio­nal fran­cese o degli eredi di Hai­der in Austria, l’Udc non è un par­tito anti-globalizzazione, bensì una forza nazional-liberista che coniuga l’interesse del mer­cato e quello delle imprese a par­tire dalla dimen­sione nazio­nale, ma non solo in quella. Il destino dei lavo­ra­tori sviz­zeri viene fatto coin­ci­dere con quello delle imprese per cui lavo­rano in un equi­li­brio che non può essere tur­bato né dall’afflusso di un numero ecces­sivo di immi­grati, né da un’apertura eco­no­mica indi­scri­mi­nata all’Unione euro­pea. I ver­tici dell’Udc sono parte inte­grante del mondo impren­di­to­riale sviz­zero che però è diviso tra chi lavora soprat­tutto con le espor­ta­zioni verso la Ue o uti­lizza i fron­ta­lieri e chi opera solo nel mer­cato interno. Ci sono per­ciò fri­zioni e punti con­di­visi. Quanto alla base elet­to­rale del par­tito, è for­mata soprat­tutto da lavo­ra­tori dipen­denti e pic­coli padron­cini molto sen­si­bili al discorso con­tro gli spre­chi del wel­fare o a temi come quelli dell’aumento del prezzo degli immo­bili nei cen­tri dove vivono gli immi­grati e alla que­stione del dum­ping sala­riale che hanno fatto da sfondo al voto di domenica.

Lei si è occu­pato anche del modo in cui gli sviz­zeri guar­dano al mondo glo­bale. Quale foto­gra­fia del paese esce dal referendum?

Que­sto voto indica chia­ra­mente come una parte degli sviz­zeri per­ce­pi­sce oggi la glo­ba­liz­za­zione. In un paese che mette in campo uno dei sistemi più com­pe­ti­tivi e aperti al mondo dal punto di vista eco­no­mico, que­sta per­ce­zione si basa su un misto di senso della pos­si­bi­lità e di estrema paura. Secondo un’inchiesta rea­liz­zata per conto del Cre­dit Suisse, la seconda banca della Con­fe­de­ra­zione, negli ultimi vent’anni la prima pre­oc­cu­pa­zione degli sviz­zeri è stata quella di poter per­dere il pro­prio posto di lavoro. Infatti, da noi la disoc­cu­pa­zione è bas­sis­sima, tra il 4 e il 5%, ma chiun­que può essere licen­ziato in ogni momento. Non ci sono posti fissi a vita, ma una com­pe­ti­zione for­tis­sima e costante. Per­ciò, anche se il paese è al cen­tro dei pro­cessi glo­bali dell’economia, o forse pro­prio per que­sto, cre­sce pro­gres­si­va­mente anche il numero di quelli che ven­gono defi­niti come “i per­denti della glo­ba­liz­za­zione”. Il refe­ren­dum ci rac­conta di un paese spac­cato a metà.

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