Il ponte sullo Stretto e il processo sui danni a società già liquidata

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E non è un dubbio da niente, quello che ci riserva l’ultimo pasticcio in ordine di tempo che i nostri legislatori hanno combinato a proposito del ponte sullo Stretto di Messina. Per rendersi conto della situazione è sufficiente rileggere il comma 9 dell’articolo 34 decies della legge 221 del dicembre 2012. Per capirci, è il provvedimento con il quale il governo Monti ha seppellito (pare definitivamente) l’opera pubblica più controversa della storia repubblicana. C’è scritto, testualmente, che nel caso in cui la concessionaria pubblica del ponte controllata per oltre l’80% dall’Anas debba essere posta in liquidazione, il commissario incaricato dovrà «concludere le operazioni entro e non oltre un anno dalla nomina». Vincenzo Fortunato ha ricevuto l’incarico di liquidatore della società Stretto di Messina con un decreto del governo di Enrico Letta, uno dei primi atti dell’esecutivo, che porta la data del 15 aprile 2013: la liquidazione si dovrebbe completare il prossimo 15 aprile. Se non fosse per un piccolo particolare. Ovvero, la data in cui il tribunale civile di Roma ha fissato la prima udienza della causa intentata dal consorzio Eurolink capitanato da Impregilo, che ha chiesto alla concessionaria 700 milioni di euro come risarcimento danni per la cancellazione del contratto. Il giudice ha deciso che si comincerà a discutere il 26 maggio 2014: quarantuno giorni dopo la chiusura stabilita per legge della liquidazione della Stretto di Messina spa.
Ed è qui che sorge il dilemma. Quel termine è «perentorio», cioè tassativo al punto da non poter essere oltrepassato se non con una proroga stabilita per legge? Oppure può essere considerato «ordinatorio», cioè come se fosse appena un consiglio? Una cosa del tipo: «Se ci si riesce in un anno meglio, altrimenti… ciccia». Giudicate voi se in un qualsiasi Paese civile una legge approvata dal Parlamento possa essere «ordinatoria». Detto questo, siamo pronti a scommettere che pure in questo caso, come in altre situazioni simili, si farà finta di niente: il termine fissato da quel provvedimento approvato a dicembre 2012 verrà archiviato come un amichevole consiglio.
Resta lo stupore per l’incredibile superficialità con cui è stata gestita una vicenda assurda, che potrebbe costare ai contribuenti più di un miliardo di euro per un’opera pubblica che non si farà. Perché ai 700 milioni rivendicati da Eurolink vanno aggiunti i circa 350 milioni degli oneri finora sopportati dalla Stretto di Messina, cioè dallo Stato, a partire dalla sua nascita nel 1981. Somma ovviamente comprensiva delle spese sostenute per un progetto che nella migliore delle ipotesi finirà per marcire in un cassetto qualunque di un ministero qualunque. Poi ci sono i costi della liquidazione: e nessuno, ma proprio nessuno, poteva essere tanto ingenuo da pensare davvero che potesse durare solo un anno. Non lo poteva pensare il premier dell’epoca Mario Monti, economista ed ex rettore della Bocconi. Né l’ex banchiere Corrado Passera, al tempo ministro dello Sviluppo. Né Vittorio Grilli, ministro dell’Economia pro tempore. Ma neppure il suo ex capo di gabinetto Fortunato, nominato liquidatore. Anche un bimbo sa che in Italia la procedura di liquidazione di qualsiasi società va avanti in eterno. Figurarsi quando le aziende sono pubbliche: nel portafoglio di Fintecna ci sono ancora liquidazioni da chiudere che risalgono agli anni Ottanta.
Fissare perciò il termine di un anno non poteva che essere una presa in giro. La ciliegina su una torta già andata a male da un pezzo. Aveva cominciato a puzzare fin dal 2001, quando era chiaro che il governo di Silvio Berlusconi non sarebbe riuscito a far partire la costruzione del ponte, come i suoi ministri più volte avevano promesso, prima di dover passare il testimone al centrosinistra. Che certo l’avrebbe bloccato. Per ripassare la palla nel 2008 di nuovo a un centrodestra non più così motivato, a dispetto delle apparenze. Tanto da votare, qualche giorno prima dell’arrivo di Monti, una mozione parlamentare dipietrista che sopprimeva i finanziamenti per il ponte. Preso atto che quell’opera non aveva più padrini, ecco che il governo infila in una legge una tagliola che Eurolink considera inaccettabile: la norma prevede che per andare avanti l’impresa firmi l’impegno a rinunciare agli adeguamenti legati all’inflazione e alla richiesta di risarcimento nel caso di interruzione dell’opera. Un chiaro epitaffio del ponte, che viene interpretato come tale. L’operazione salta, la società concessionaria viene messa in liquidazione e fioccano i ricorsi a Roma e Bruxelles. Non senza una nota irridente. Perché un giorno capita, come ha raccontato Antonella Baccaro sul Corriere , che un leghista presenti un emendamento alla legge di stabilità con il quale chiede di revocare la liquidazione riesumando così il ponte. Si chiama Angelo Attaguile, siciliano di Catania: è il figlio del senatore democristiano Gioacchino Attaguile, più volte sottosegretario, ed è un fedelissimo dell’ex governatore siciliano Raffaele Lombardo, autonomista. Eletto con il Pdl, trasloca però fra i suoi colleghi del Carroccio, rimasti in 19, per consentire alla Lega di costituire un gruppo parlamentare. Questa sì, che si chiama solidarietà…


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