Matteo piè veloce e i tempi lunghi della politica
Indurlo a spostarsi, magari, ad altro incarico, preferibilmente fuori dall’Italia — per assumerne l’incarico di premier.
Oppure spingere verso elezioni anticipate. Dipenderà, sicuramente, anche dall’esito della marcia a tappe forzate condotta per realizzare le riforme istituzionali. La riforma elettorale, per prima. Poi quelle costituzionali, che richiedono procedure più complesse. Verranno approvate anch’esse dal Parlamento. Con ragionevole rapidità. Perché viviamo tempi veloci.
E Renzi è l’uomo dei tempi veloci. Dei fatti veloci. D’altronde, agli italiani, questo atteggiamento piace. Non per caso Renzi, oggi, è, di gran lunga, il più apprezzato fra i leader. Politici e istituzionali. Quasi il 60% degli elettori (secondo Ipsos) gli attribuisce un voto da 6 in su. L’85%, fra gli elettori del Pd. Ma lo valuta positivamente anche quasi uno su due tra gli elettori degli altri partiti (Pdl e M5s compresi). In altri termini: Renzi dispone di un consenso “trasversale”. Più di ogni altro leader in Italia. Il suo consenso “personale”, peraltro, si trasferisce sul partito. Dal 25%, ottenuto alle elezioni di un anno fa, è risalito ampiamente, nelle stime di voto (secondo Demos, oltre il 33%). Peraltro, è il partito verso il quale gli elettori di forze politiche “concorrenti” mostrano maggiore simpatia (33%).
Naturalmente, questi caratteri, oltre che punti di forza, potrebbero costituire dei rischi, se non dei limiti. Come avevamo osservato anche in passato (nel maggio 2013), tratteggiando una fenomenologia del renzismo. Un sentimento esteso. Da destra a sinistra, passando per il centro. Allora, come ora, il problema mi pareva e mi pare lo stesso. Troppe simpatie rischiano di non attecchire, di non radicarsi. Di non consolidarsi, perché fin troppo “personalizzate”. E di sollevare, invece, troppe attese. Che, se dis-attese, potrebbero, a loro volta, provocare delusione.
La personalizzazione stessa del consenso potrebbe, a sua volta, indebolire il Pd. Soprattutto se il leader si impone oltre i confini del partito. Come sta facendo Renzi. Che agisce in proprio, da solo, attento a marcare la propria specificità. Come leader del post-Pd. O meglio (peggio?): leader senza partito. Perché un partito è, comunque, una “parte”, mentre lui si rivolge a tutti. Tutti. Come alle primarie, nelle quali votano non gli iscritti ma gli elettori — reali e potenziali. D’altronde, alla Convention della Leopolda 2013, come in altre occasioni, Matteo Renzi non ha voluto bandiere di partito. Le insegne e i vessilli del Pd. Rottamati. Renzi: interpreta la parte del leader im-politico. Perfino antipolitico. Lui, il Rottamatore dei leader e degli attori politici: della Prima e della Seconda Repubblica. Non guarda in faccia a nessuno. Destra e sinistra non gli interessano. Tanto meno il centro. Che, non a caso, è scomparso.
D’altra parte, alle elezioni di un anno fa, si è affermato il M5s. Un soggetto politico nuovo, con un’identità politica e una geografia prive di specificità. Intercetta voti a destra — un terzo — a sinistra — un terzo — e il resto — ancora un terzo — da “fuori”. Dai delusi della politica. E poi, ha preso voti dovunque, in modo omogeneo. Nord, Centro e Sud. Ecco: neppure Renzi ha una geografia e neppure uno spazio politico. Tantomeno un’ideologia. O meglio, la sua ideologia è la velocità. È il leader dei tempi veloci. Dei fatti veloci. Perché questo è un tempo veloce. Che rende insopportabili i tempi lunghi della politica italiana. Incapace di decisioni.
La Prima Repubblica: quasi cinquant’anni senza alternanza. Stessi partiti e stessi leader, stessi parlamentari. Al governo e all’opposizione. La Seconda Repubblica, fondata da Berlusconi sulle macerie di Tangentopoli, ha dato l’impressione del cambiamento. Berlusconi. Ha tradotto e riassunto i fatti in parole. E in immagini. Più che l’uomo dei “fatti”, è l’uomo che dice di fare. Vent’anni in attesa di riforme costituzionali, istituzionali e poi economiche e sociali. Annunciate, proclamate. E sempre eluse, deluse. Oppure imposte con colpi di mano. Fino a costruire questa bizzarra Repubblica preterintenzionale. Fondata sul caso e sui veti.
Per questo i “fatti” in sé, per questo la “velocità” in sé: marcano fratture rispetto al passato. Renzi ne ha colto il segno e lo interpreta, con piena convinzione e in modo convincente. Non è l’uomo della Provvidenza, che evoca il futuro, un disegno definito e condiviso. Ma dell’Urgenza. Perché il futuro è “adesso”, come recita il suo slogan in occasione delle Primarie del 2012. Renzi. Assistito dai “suoi” consiglieri e dai “suoi” tecnici, tratta direttamente con l’anziano leader dell’opposizione. Anche se indagato e condannato. Non importa. Anzi, meglio. Tra lui e Berlusconi, nel confronto: non c’è partita. Renzi. Costringe governo e Parlamento a (in) seguirlo. Ad adeguarsi ai suoi tempi. Veloci. E se c’è contrasto con il capo del governo, suo compagno di partito, meglio. Così appare più evidente la sua autonomia da tutti. I contenuti e gli effetti delle riforme, in realtà, sono importanti, ma neanche troppo. L’importante è “fare” le riforme. In tempi veloci. Dopo anni di discussioni inutili. D’altronde, fra pochi mesi si vota. Per l’Europa. Dunque, anche per l’Italia. Per — o contro — il post-Pd di Renzi. Perché in Italia non ci sono voti che non abbiano risvolti politici interni.
Due mesi dopo la sua elezione, dunque, Renzi agisce come “il” Capo. Del governo oltre che del post-Pd. Egli è dovunque e comunque. Affiancato — e assecondato — dall’opposizione. Perché Grillo e il M5s, in fondo, echeggiano e moltiplicano lo stile renzista. La loro mobilitazione continua e martellante, fuori e soprattutto dentro il Parlamento, rende difficile cogliere motivi e contenuti. Così, appaiono protagonisti di un happening neo-futurista. Permanente. E, più che presente, istantaneo.
Ecco, io penso che il successo di Renzi rifletta questo clima e questa domanda di senso in tempi senza senso. Renzi. È l’uomo dei tempi veloci in questi tempi veloci. Tanto veloci che anch’io, lo ammetto, mi sento in ritardo.
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