Un’altra Europa è possibile quattro mosse per costruirla
Queste premesse servono anche a individuare i complessi pericoli che una Europa forte può contribuire a evitare. I popoli europei hanno buoni motivi per volere un’unione politica; ma la conseguente necessità di allargare l’edificio familiare dello Stato nazionale, per condividere un piano superiore con altre nazioni, è ancora intuitivamente distante. Inoltre azioni solidali esigono una fiducia reciproca, ovvero la certezza che in futuro anche l’altra parte ricambierà. Il management della crisi ha fatto a pezzi questa già debole fiducia tra nazioni.
Mi limiterò a evocare la necessità di un cambiamento politico enunciando i problemi urgenti finora in gran parte taciuti. In primo luogo il governo federale tedesco, dal maggio 2010, ha esercitato con forza una posizione semi-egemonica in Europa, e così facendo ha introdotto un fattore esplosivo nella politica interna europea. In secondo luogo il crisis management degli ultimi anni ha portato a un ampliamento delle competenze di Consiglio e Commissione europei, esasperando il già esistente deficit di legittimità della Ue e suscitando resistenze nazionali.
Terzo, ma non ultimo il fattore veramente inquietante: la politica dell’attuale coalizione non ha intaccato le cause della crisi. Il governo federale tedesco ha imposto la propria visione di superamento della crisi economica costringendo i paesi colpiti a dure “riforme”. Ma non si è fatto carico della responsabilità paneuropea circa le drastiche conseguenze di una politica di risparmio socialmente a senso unico. È nel nostro interesse nazionale non ricadere di nuovo nella “posizione semi-egemone” che era stata finalmente superata con l’unificazione europea, e che aveva aperto la strada a due guerre mondiali. Senza un cambiamento politico identificabile a livello europeo, non potremo reggere affidandoci al good will di vicini che abbiamo messo alla prova imponendo una dura politica di superamento della crisi. Dobbiamo segnalare la nostra disponibilità a rendere strutturalmente rinunciabile il ruolo di leadership tedesco e, agendo lealmente con gli Stati più piccoli, intraprendere ulteriori iniziative e a pari dignità con la Francia.
Le realtà create dalla gestione della crisi impongono una legittimazione a posteriori di Commissione, Consiglio e Bce. In tutti i casi il Parlamento europeo non ha avuto voce in capitolo. Il fiscal pact è frutto della diffidenza tedesca: decisioni già prese a livello europeo sui limiti del disavanzo e del debito vengono iscritte nel diritto costituzionale nazionale, nonostante gli organismi del meccanismo europeo di stabilità non siano sottoposti ad alcun controllo parlamentare.
I problemi menzionati — sia lo scossone agli equilibri politici in Europa sia la mancanza di legittimità del Consiglio e della Commissione — , rafforzano il federalismo esecutivo di Bruxelles e suscitano quindi tendenze centrifughe favorevoli a un ritorno allo Stato nazionale. Viene così incoraggiata la ricerca reciproca del capro espiatorio attraverso la divisione dell’Europa tra paesi donatori e riceventi. E il modo eterogeneo in cui vengono percepiti i destini oscenamente diversi dei paesi in crisi è andato affermandosi anche nella Repubblica federale con una falsa identificazione delle cause della stessa crisi, provocata fuorché in Grecia dal debito privato più che dalle politiche di bilancio. Ma soprattutto, finora il crisis management ha rimosso i problemi strutturali. La crisi del debito sovrano è stata affrontata con efficacia solo perché la Bce andando contro il divieto del bail-out ha simulato in modo credibile una responsabilità comune, cioè quella sovranità fiscale che manca all’Unione. Ma a causa delle differenze tra le economie reali e le bilance dei pagamenti delle economie nazionali, tassi unici dànno il segnale sbagliato ai governi.
One size for all fits none. Per questo la politica del governo federale tedesco, che accanto a necessarie riforme di amministrazione e mercato del lavoro prescrive agli Stati in crisi solo una politica di risparmio a carico di salari, servizi sociali, servizi pubblici e infrastrutture, è controproducente. Si nutre della falsa premessa che gli Stati in crisi possano recuperare con le proprie forze.
Invece di trattare i cittadini di comunità democratiche come bimbi immaturi, Consiglio europeo e Parlamento europeo dovrebbero poter decidere insieme sui fondamenti della politica fiscale, economica e sociale. Nessuno può costringere i governi a seguire le raccomandazioni della Commissione, se non vogliono, e nella maggioranza dei casi i governi non vogliono. La prosecuzione dell’attuale politica radicalizza il circolo vizioso: quante più competenze Consiglio e Commissione si arrogano nella politica di consolidamento, tanto più questo governare a porte chiuse spinge i cittadini alla consapevolezza del crescente peso della tecnocrazia, e tanto più il governo tedesco scivola nel dilemma della sua posizione semi-egemonica. Nel frattempo, la cura da cavallo imposta alle economie dei paesi in crisi al prezzo della dignità strappata a popoli interi e del declino sociale di intere generazioni, strati sociali e regioni, ha imposto una tale recessione economica che “i cavalli bevono di nuovo”. Non basta rendere vincolante il modello politico del consolidamento: ci vuole un cambiamento politico che includa il trasferimento di risorse oltre le frontiere nazionali. Il governo federale deve decidere se, nel proprio stesso interesse di lungo termine, vuole proporre agli altri governi dell’Eurozona la trasformazione della comunità monetaria in una Unione dell’Euro.
Ora possiamo offrire qualcosa, alla Francia e al Sud Europa. Naturalmente, sarebbe solo l’inizio di un processo molto lungo e difficile. E sarebbe credibile soltanto se a) si accetta la possibilità di un’Europa a due velocità, b) si rinuncia al livello intergovernativo, c) si cerca di costituire un sistema di partiti europei e d) ci si congeda dal sistema finora elitario della politica europea.
a) Le attuali istituzioni europee devono essere differenziate, costituendo una Unione dell’Euro aperta all’ingresso di altri Stati, prima di tutto la Polonia. Un’unione con nucleo duro e periferia può affrontare meglio sia le richieste britanniche di una restituzione di sovranità, sia quelle di nuovi ingressi (per esempio della Turchia).
b) Il metodo intergovernativo deve essere sostituito col metodo della comunità. Mentre l’assemblea dei capi di governo, legittimati solo da elettori nazionali, è fatta per negoziare compromessi tra inamovibili interessi nazionali, la formazione della volontà politica in un parlamento europeo diviso tra gruppi parlamentari, rende possibile controbilanciare gli interessi nazionali con comunità d’interessi oltre le frontiere.
c) Le imminenti elezioni europee offrono per la prima volta la possibilità di una politicizzazione dell’agenda. Solo candidati e liste comuni possono, oltre le frontiere nazionali, rendere riconoscibili programmi e alternative elettorali. Poi serviranno un sistema elettorale europeo e un sistema di partiti europeo.
d) Infine le élites politiche devono rinunciare a politiche europee realizzate senza l’avvallo dell’elettorato, rinunciando anche al mix popu-lista tra attacchi continui a Bruxelles e retoriche europeiste della domenica. Per fortuna in Europa abbiamo popolazioni intelligenti, e non il tipo di soggetti collettivi della cui esistenza il populismo di destra vorrebbe convincerci. Per una democrazia sovranazionale ancorata agli Stati nazionali, non serve un popolo europeo bensì individui che abbiano imparato a essere contemporaneamente sia cittadini d’uno Stato sia cittadini europei. Cittadini che potrebbero partecipare alla formazione della volontà politica europea nei contesti nazionali se anche i media fossero all’altezza della responsabilità. A tal fine i media-leader devono assumersi un complesso ruolo di traduzione, di avvicinamento delle opinioni pubbliche nazionali l’una all’altra, riferendo sui dibattiti che si svolgono in ogni paese e che riguardano tutti i cittadini europei.
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