Mibact, la riforma «immateriale»

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Non è certo facile rifor­mare un mini­stero come quello del Mibact (leggi Beni, Atti­vità Cul­tu­rali e Turi­smo), soprat­tutto in tempi di magra, in cui si è costretti a fare i conti della serva e a guar­dare più alla spen­ding review che a un pro­getto di ampio respiro, magari filo­so­fico, che dia il giu­sto peso alle istanze della Costi­tu­zione e a quelle della realtà pre­sente. Così, la bozza di riforma che è uscita dalle stanze del dica­stero ha una visione che scric­chiola. Manca, infatti, di una ossa­tura cen­trale, un’idea cul­tu­rale che regga quell’impalcatura a rischio di col­lasso. E il risul­tato di tanto lavoro potrebbe essere l’ennesima occa­sione man­cata. Bray, già con la carica decisa d’imperio a Pom­pei e i vari sgan­cia­menti che pro­mette in nome di una gover­nance di altro segno, sta andando da tempo in una dire­zione: allen­tare la corda che tiene unito il patri­mo­nio, far entrare le uni­ver­sità dalla porta prin­ci­pale nel mondo dei beni cul­tu­rali, alleg­ge­rire gli uffici dei suoi «tec­nici», distri­buire com­pe­tenze esterne.

La «bozza» iden­ti­ta­ria del nuovo mini­stero, nata con l’intenzione di snel­lire la mac­china buro­cra­tica, soprat­tutto le sovrap­po­si­zioni fra dire­zioni gene­rali e soprin­ten­denze, non com­pie la sua mis­sione. Accorpa sì dove può (Abruzzo e Molise, Ligu­ria e Pie­monte, Basi­li­cata e Cala­bria), rispar­mia in sti­pendi e sedi, ma poi torna a far pro­li­fe­rare le dire­zioni cen­trali. Doveva raf­for­zare l’autonomia alle soprin­ten­denze e invece non fa tesoro di un’indicazione così importante.

Non sap­piamo se dalla Com­mis­sione di esperti sia uscito pro­prio que­sto pro­getto o se sia frutto di con­trat­ta­zioni, però somi­glia a un pastic­cio.
A uscirne assai male sono l’arte e l’architettura con­tem­po­ra­nee e poi l’archeologia. Le prime due sono pre­ci­pi­tate nel buco nero di una super dire­zione, acco­mu­nate allo spet­ta­colo e ai beni imma­te­riali. Una sagra val bene un Burri. Soprat­tutto, si apre una vora­gine nella tutela, «cap­pello» den­tro cui si poteva fin qui ada­giare qual­siasi opera con­tem­po­ra­nea si mani­fe­stasse sul ter­ri­to­rio «sto­rico» (ovun­que in Ita­lia). L’immateriale, invece, non ha più rete di pro­te­zione. E l’archeologia? È scom­parsa, anche come parola signi­fi­cante, tra le dire­zioni gene­rali. Al suo posto, c’è un gene­rico «patri­mo­nio storico-artistico». Una scelta che non è pia­ciuta agli archeo­logi che hanno pro­te­stato con­tro la mor­ti­fi­ca­zione ingiu­sti­fi­cata: «Bray e la diri­genza Mibact sem­brano aver deciso di deli­neare un mini­stero a pro­prio per­so­nale ed esclu­sivo pia­ci­mento, igno­rando qua­lun­que forma di demo­cra­tico con­fronto».
Altro punto dolente: il pro­ce­di­mento di veri­fica e di vin­colo del patri­mo­nio arti­stico e monu­men­tale si separa dalla valu­ta­zione dell’interesse pae­sag­gi­stico, con deci­sori diversi, annul­lando la nozione – tutta ita­liana – di con­te­sto sto­rico. Con­se­guenza, un’operatività impos­si­bile e un inde­bo­li­mento della tutela. Spe­riamo di sba­gliare ana­lisi. Grave anche, inse­guendo un falso con­cetto di valo­riz­za­zione, l’uscita di alcuni musei-star dai «poli» che li met­tono in rela­zione con altre isti­tu­zioni. Ver­ranno gestiti a parte, non saranno più un traino. Se si farà cassa con gli Uffizi, è pro­ba­bile che si dovrà chiu­dere il museo di san Marco del Beato Ange­lico, per­ché da solo quest’ultimo non regge. Si inter­rompe un patto di sus­si­dia­rietà, lo stesso che ha assi­cu­rato fin qui la capil­la­rità del patri­mo­nio sul ter­ri­to­rio. Patri­mo­nio dif­fuso. Dif­fu­sis­simo, ma non con il mede­simo appeal mediatico.


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