Differenze di genere: la riduzione c’è, ma al ribasso

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Gli effetti della crisi si sono sovrap­po­sti a fat­tori economico-sociali di più lungo periodo nel deter­mi­nare modi­fi­ca­zioni sostan­ziali nella par­te­ci­pa­zione fem­mi­nile al mer­cato del lavoro. Da un lato, le donne più gio­vani ave­vano matu­rato, fin da prima della crisi, un attac­ca­mento al lavoro non infe­riore a quello maschile, riflesso in un pro­gres­sivo aumento delle fami­glie bi-reddito; dall’altro, la per­dita del lavoro del part­ner può aver spinto un numero cre­scente di donne ad entrare nel mer­cato. Rispetto alle crisi pre­ce­denti, dun­que, un numero minore di donne esce dal mer­cato del lavoro per sco­rag­gia­mento, men­tre aumenta la quota di fami­glie in cui la donna è il per­cet­tore prin­ci­pale di red­dito. Inol­tre, la crisi costringe ad accet­tare qual­siasi occa­sione di lavoro, pre­ca­rio o part-time: lavo­ra­trici che vor­reb­bero lavo­rare a tempo pieno com­pe­tono così con chi, per ragioni fami­liari, non ha alter­na­tive al part-time. Cre­sce dun­que il part time invo­lon­ta­rio: 54,5% nel 2012 (con un aumento di 19 punti per­cen­tuali rispetto al 2007). Cio­no­no­stante, l’Italia ha ancora il più basso tasso di occu­pa­zione fem­mi­nile (se si eccet­tuano Gre­cia e Malta) e un tasso di inat­ti­vità molto ele­vato, supe­riore di più di 10 punti per­cen­tuali a quello europeo.

In una situa­zione di peg­gio­ra­mento gene­rale, la ridu­zione delle dif­fe­renze fra uomini e donne nel mer­cato del lavoro è avve­nuta al ribasso; per­man­gono tut­ta­via dif­fe­renze e discri­mi­na­zioni. Il tasso di neet (gio­vani che non sono né occu­pati, né in for­ma­zione, né in istru­zione) è più alto per le donne. Le gio­vani all’inizio della car­riera lavo­ra­tiva cadono in misura mag­giore in per­corsi a rischio di fal­li­mento — part time, con­tratti tem­po­ra­nei, inat­ti­vità. La fra­gi­lità degli inizi ha pesanti con­se­guenze sulla pos­si­bi­lità di intra­pren­dere una vita auto­noma: il ritardo nella for­ma­zione di una fami­glia e il rin­vio della mater­nità incide sul tasso di fecon­dità, con gravi riper­cus­sioni sulla soste­ni­bi­lità eco­no­mica di lungo periodo.

Per­ciò le poli­ti­che volte a con­te­nere gli effetti della crisi devono tenere conto sia delle tra­sfor­ma­zioni avve­nute sul mer­cato del lavoro sia delle fra­gi­lità che ancora per­si­stono: l’essere o no a rischio di povertà dipende ormai in modo cru­ciale dall’esistenza di due red­diti nella fami­glia. Se l’occupazione fem­mi­nile non può più essere con­si­de­rata resi­duale, le poli­ti­che di soste­gno dell’occupazione e gli ammor­tiz­za­tori sociali devono essere rifor­mati per tenerne conto. Le poli­ti­che attuate finora sono andate nella dire­zione oppo­sta: la crisi fiscale ha impo­sto poli­ti­che di risa­na­mento del bilan­cio pub­blico che hanno dan­neg­giato dop­pia­mente le donne, ridu­cendo sia la domanda di lavoro nel set­tore dei ser­vizi, ad ele­vata con­cen­tra­zione fem­mi­nile, sia la for­ni­tura di ser­vizi, usati in misura mag­giore dalle donne. La ridu­zione dei ser­vizi (e/o l’aumento del costo), uni­ta­mente alla ridu­zione dei red­diti fami­gliari cau­sata dalla cre­scente disoc­cu­pa­zione, può inol­tre costrin­gere a sosti­tuire ser­vizi acqui­stati sul mer­cato con ser­vizi pro­dotti nell’ambito della fami­glia (sosti­tuendo cioè lavoro pagato con lavoro non pagato). La riforma degli ammor­tiz­za­tori sociali, infine, non ha garan­tito una coper­tura dei lavo­ra­tori più deboli, fra cui le donne sono sovra-rappresentate.

Che fare? Ser­vono poli­ti­che volte ad aumen­tare l’occupazione com­ples­siva e poli­ti­che volte a ridurre la discri­mi­na­zione sof­ferta dalle donne nel mer­cato del lavoro. Insi­stere anche su poli­ti­che selet­tive a favore dell’occupazione fem­mi­nile è tanto più rile­vante, in quanto la situa­zione di disoc­cu­pa­zione e di males­sere gene­rale rischia di far appa­rire l’attenzione all’eguaglianza di genere un lusso da riman­dare a tempi migliori. Su www?.InGe?nere?.it abbiamo sot­to­li­neato come la crisi possa costi­tuire una oppor­tu­nità di cam­bia­mento e di cre­scita. A tal fine abbiamo lan­ciato l’idea di una poli­tica indu­striale per il set­tore delle infra­strut­ture sociali: scuole, asili, assi­stenza agli anziani, sono inve­sti­menti che rispon­dono a una domanda in con­ti­nua e rapida cre­scita, capaci di gene­rare altret­tanta e forse mag­giore occu­pa­zione degli inve­sti­menti in infra­strut­ture fisi­che, di assor­bire forza lavoro fem­mi­nile e qua­li­fi­cata, di creare ser­vizi che favo­ri­scano la con­ci­lia­zione. Attra­verso gli effetti mol­ti­pli­ca­tivi del red­dito, que­sti inve­sti­menti potreb­bero in larga parte auto-finanziarsi. Ma, come già sot­to­li­neato, l’aumento dell’occupazione fem­mi­nile richiede anche una ripar­ti­zione più equa del lavoro di cura, nella fami­glia e nel mer­cato del lavoro. Alcune di que­ste poli­ti­che non richie­de­reb­bero aggravi di costi per la finanza pub­blica. La fles­si­bi­lità dei tempi di lavoro, per esem­pio, se rego­lata e egual­mente ripar­tita, potrebbe rispon­dere alle esi­genze di imprese e lavo­ra­trici. È tempo di affron­tare anche que­sti pro­blemi, e la crisi può costi­tuire un’opportunità per ripen­sare a un modello di svi­luppo soste­ni­bile più equo.


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