by Sergio Segio | 7 Febbraio 2014 8:18
In Europa il tasso di disoccupazione raggiunge oggi l’11%, 4 punti percentuali sopra il livello del 2007. La crisi ha colpito i giovani più di altri. Il tasso di disoccupazione giovanile ha superato il 20 per cento, a cui occorre aggiungere i Neet che mostrano una crescita progressiva. Inoltre, l’elevata persistenza della disoccupazione riduce la probabilità di trovare lavoro, abbassa la propensione a rimanere sul mercato, distrugge abilità e competenze, creando la trappola della disoccupazione.
Secondo l’Ilo (Global Employment Trend 2014),il tasso di disoccupazione non si ridurrà nei prossimi anni, soprattutto in Europa, innalzando il «gap occupazionale»: la perdita cumulata di posti di lavoro rispetto alla situazione pre-crisi. Le previsioni sono pessime: la crescita del reddito 2014–18 nei paesi sviluppati è stimata al 2,5 per cento annuo, ma l’occupazione allo 0,5 per cento. Quindi una ripresa senza occupazione. E in Europa la situazione sarà persino peggiore.
Come far fronte alla drammaticità di questa situazione? L’Europa conservatrice e tecnocratica persevera da anni con una politica centrata su due pilastri: consolidamento fiscale e riforme strutturali. Il primo pilastro impone tagli alla spesa pubblica, aumento dell’imposizione fiscale, misure regressive sul reddito distribuito e sui servizi pubblici erogati. Gli effetti immediati prodotti sono: riduzione della domanda pubblica e dei consumi privati e crescita delle disuguaglianze nei redditi. Il risultato è la compressione della domanda interna. Ogni prospettiva di crescita viene affidata alla domanda estera, la cui crescita appare però debole e incerta anche nei paesi emergenti. Per accrescere la competitività sui mercati esteri interviene il secondo pilastro, attraverso riforme strutturali che realizzano la svalutazione interna in assenza di quella della moneta comune, che anzi si apprezza. Queste devono agire per migliorare la competitività sui costi, il costo del lavoro per unità di prodotto in primis.
[1]Le riforme strutturali sul mercato del lavoro hanno tre componenti. La prima è la deregolamentazione. La flessibilità in entrata e in uscita dall’impresa e dal mercato rimane il mantra delle buone politiche del lavoro. In Italia la pratichiamo dagli anni ’90, con esiti deleteri sulla produttività. La seconda è salariale. I salari nominali non devono crescere più della produttività reale, perché al contrario si minerebbe la competitività nazionale. Quindi, salario reale stagnante e diminuzione della quota del lavoro sul reddito, con evidenti effetti negativi sulla domanda interna. Ciò pare un effetto collaterale del «conflitto distributivo», in quanto il target fondamentale è quello di catturare la domanda estera, motore unico della ripresa. La terza è contrattuale. Occorre ridimensionare il ruolo del contratto nazionale e spostare a livello decentrato ogni forma di negoziazione sul salario, abbandonando ogni meccanismo di recupero automatico del potere d’acquisto rispetto all’inflazione.
In questo contesto di politiche neoliberiste, il JobsAct italiano appare non più che uno spec script, a tratti un patchwork, alla ricerca di una idea forte che lo animi. Se, con indulgenza, lo intendiamo un work in progress aperto a discussione, allora si possono fornire almeno due interpretazioni distinte della volontà politico-economica sottostante. Da un lato, potrebbe semplicemente inserirsi nel solco di una politica neoliberista che informa le attuali proposte di riforme strutturali. Semplificazione, meno burocrazia e meno regole potrebbero sottendere una confermata volontà di deregolamentare il mercato del lavoro, rendendolo ancora più flessibile e riducendone le tutele. Se questo fosse l’obiettivo, coerente col secondo pilastro della politica europea, allora crediamo che il JobsAct sia da rigettare.
Dall’altro, taluni interventi sul lavoro sembrano convivere con idee di politica industriale pubblica per i settori strategici. Questa non può che essere complementare a politiche macro e orientata a sostenere, in primis, la domanda interna. Avere un’idea di politica industriale significa scegliere il posizionamento della nostra manifattura nel mercato globale, in termini di tecnologie, produzioni e domanda. Questa partita si gioca in Europa, luogo dove si lancia il nuovo Industrial Compact, poiché l’attivazione di forti investimenti passa attraverso la rimozione dei vincoli di bilancio. Solo se tale fosse il senso del JobsAct, allora varrebbe la pena discuterne nel merito e articolarne i precisi contenuti.
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