Dalla culla alla maturità crescere un figlio costa quanto una Ferrari

by Sergio Segio | 6 Febbraio 2014 9:09

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MILANO. I FIGLI so piezz’e core. Buoni, belli, dolci, cari. Anzi, per dirla tutta, carissimi: «Guardi qui: passeggino Peg Perego, sconto 30%, 349 euro. Lettino para-colpi 111 euro, altri 73,5 per il seggiolone low-cost. Bavaglino con Minnie 5,37». Diana Guarnieri ha capito l’antifona.
LEI ha 28 anni e un pancione di sette mesi nascosto a stento da un bel vestito premaman verde bosco («70 euro, in offerta»), mentre suo figlio Giovanni è solo un marmocchio immortalato in un’ecografia in bianco e nero. «Ma io ho già speso per lui qualcosa come mille euro! », ride sfoderando rassegnata la carta di credito alla cassa dell’outlet Prenatal di zona Corvetto, a Milano.
Dovrà farsene una ragione, è solo l’inizio. Traghettare un bambino dalla culla alla maggior età costa come comprarsi una Ferrari California: si parte dai pannolini — fino a 1.050 euro l’anno per sei cambi al giorno — si transita da omogeneizzati, Dvd della Peppa- Pig, paghette (16 euro la settimana la media italiana), apparecchi per i denti. Uno scontrino dopo l’altro, il conto totale da zero a 18 anni è da brividi: 171mila euro (9.500 l’anno) a figlio per Federconsumatori, 180 mila per il Dipartimento statunitense all’Agricoltura cui Washington — manco i figli fossero bestiame — ha affidato il compito di monitorare statisticamente il caro-bimbo.
«Preoccupata? No. Con mio marito abbiamo fatto un patto. Vada come vada, i sacrifici li faremo noi. A Giovanni non dovrà mancare niente!», dice convinta Diana. Vale un po’ per tutti. Dal 1960 ad oggi, al netto dell’inflazione, le spese per far crescere i bambini sono cresciute del 23%. Abbiamo provato a risparmiare sull’abbigliamento (—50% il costo in 50 anni), sforbiciato il conto per il cibo, calato dal 25% al 16% del totale. Per il resto la Bebè Spa è un’industria a prova di recessione: stanziamo il doppio del ‘60 per medicine e dottori, sacrificio che ha consentito agli Stati Uniti di ridurre del 50% la mortalità in questa fascia d’età. Alle stelle, +1000%, sono schizzate le uscite per educazione e benessere.
La parola d’ordine della Babyeconomy è una sola: arrangiarsi con quello che si ha. La forbice di spesa è ampia. E si adegua al reddito di papà e mamma — se ci sono tutti e due — e al luogo di residenza: una famiglia italiana che guadagna meno di 22 mila euro — calcola Federconsumatori — paga “solo” 6.300 euro l’anno per svezzare i pargoli (il secondo e il terzo costano il 22% in meno del primo). Il conto di chi ha un 740 da 32.500 euro sale a 9.500 euro, mentre i Paperoni con più di 68 mila euro possono permettersi di metterne sul piatto oltre 15 mila.
«Il problema in Italia è lo scarsissimo sostegno pubblico alla crescita dei figli», dice Daniela del Boca, professoressa di economia all’Università di Torino. Il Fondo per i finanziamenti alle famiglie è sceso dal miliardo del 2007 a 45 milioni, un’elemosina.
Gli stanziamenti sociali a favore di nuclei con bimbi sono l’1,6% del Pil, contro il 2,3% della media Ocse e il 4% della Francia. «Lo Stato deve riconoscere che un bambino è un investimento per il suo futuro», tuona Giuseppe Butturini dell’Associazione nazionale famiglie numerose. Roma invece apre il portafoglio con il contagocce: le detrazioni annue per una famiglia del ceto medio dove entrambi i genitori lavorano «sono di 700 euro», calcola l’ufficio studi dell’organizzazione. Briciole: una donna può spendere prima del parto fino a 1.970 euro tra test di gravidanza, analisi, farmaci, integratori al calcio e arredamento della cameretta. E dalla nascita alla prima candelina il bebè può costare fino a 14 mila euro.
«Questo in effetti è il periodo in cui è più difficile far quadrare il bilancio di casa», spiega Del Boca. Ci sono aree del paese dove gli asili nido pubblici coprono solo il 5% della domanda. E visti i limiti ai congedi parentali («al sud le donne non li prendono più per non venir
licenziate») le mamme italiane sono quelle in Europa più a rischio di perdere il posto di lavoro. Solo il 59% di loro conserva l’impiego dopo aver partorito il primo figlio. Una percentuale da paese arretrato visto che in Spagna siamo al 63%, in Germania al 74% e in Svezia addirittura all’81%.
Cosa si può fare? «Bisogna aumentare il presidio di asili nido dove non ce ne sono — continua Del Boca — . Poi si dovrebbe rimpolpare il servizio di voucher per il doposcuola a favore dei ragazzi più grandi». Il libro dei sogni anticaro bimbo prevede pure un allungamento dei congedi parentali («in Francia sono decisamente dilatati rispetto ai nostri») e altre normative di supporto come la supplenza dello Stato quando dopo una separazione il genitore non corrisponde gli assegni familiari. Come succede già in Svezia e Danimarca. Utopie in un paese a secco di soldi come l’Italia dove la sola istituzione di un giorno di paternità obbligatorio per i padri — un gesto simbolico — è costato 70 milioni alle casse dello stato.
La crisi, come capita sempre, ha allargato il solco tra i privilegiati e i meno garantiti. Nel 1996 — dice il Dipartimento all’agricoltura Usa — le famiglie più ricche spendevano per i rampolli il doppio di quelle meno fortunate. Oggi il rapporto è di 2,7 a uno. Far studiare un ragazzo inglese dai 18 ai 21 anni in uno dei tanti college pubblici del Paese costa, secondo uno studio di Lv, 72mila sterline circa, qualcosa come 85mila euro. Cifra che lievita a 196mila sterline se si affida la sua educazione a uno degli esclusivi (e carissimi) istituti privati britannici. Chi può, lo fa. L’amore per le creature cui teniamo di più — lo sanno tutti — non ha limiti finanziari. E fare un bambino, tutto considerato, può essere persino un’affare: mantenere come si deve un cane nell’Upper East Side di New York — ha calcolato la Bloomberg — può costare fino a 13mila euro l’anno…

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