by Sergio Segio | 5 Febbraio 2014 13:00
E Letta, Hollande, Merkel non paiono intenzionati a invertire rotta Il presidente Napolitano ha scoperto che l’austerità fa male[1] e noi non possiamo che rallegrarcene. Tuttavia, è doveroso notare che il presidente arriva buon ultimo. Sono almeno tre anni, infatti, che in Europa il dibattito sugli effetti dell’austerità[2] occupa istituzioni e policy makers – mentre in Italia governi di emergenza e larghe intese hanno di fatto abolito ogni discussione al riguardo.
Ripercorrere un po’ di storia forse fa bene. Quando nel 2009 si scoprì una voragine nelle finanze pubbliche greche, il governo di Andreas Papandreou fu obbligato a far votare al proprio parlamento un draconiano piano di austerità fiscale, in cambio dell’aiuto da parte dei partners europei. Questo aiuto arrivò tardi e in maniera insufficiente, tanto da non riuscire ad impedire né un default di fatto della Grecia, né il contagio ad altri paesi della periferia, anch’essi trattati con la stessa medicina. All’austerità imposta ai paesi in difficoltà si è sommata quella della Germania e degli altri paesi creditori, votati alla compressione della domanda interna e alla ricerca di una crescita trainata dalle esportazioni.
Negli ultimi anni, soprattutto in ambito anglosassone, si registra un crescente consenso circa la tesi secondo cui le cause della crisi siano da ricercare[3] in squilibri strutturali della zona euro, e non nel comportamento irresponsabile di alcuni governi. Ma non è questa la sede per riaprire questo dibattito. È interessante piuttosto approfittare del grido di dolore del presidente per chiedersi quale fosse la logica dietro alle politiche di austerità, e per chiedersi cosa non abbia funzionato in tale logica.
I partigiani delle politiche di austerità imputano i mali dell’Europa, e in particolare di alcuni paesi, a governi ipertrofici e inefficienti, che mantengono stati sociali insostenibili e soffocano l’economia in una ragnatela di norme e regolamentazioni impedendo innovazione e dinamismo. L’austerità, e le riforme strutturali, dovrebbero secondo questa visione consentire di liberare le forze vive del mercato e rilanciare la crescita. Così, mentre il resto del mondo contrastava la crisi con politiche monetarie e fiscali espansive, l’Europa si avvitava in una recessione amplificata da politiche fiscali procicliche (e da un’eccessiva timidezza della Bce).
E’ chiaro che la maggior parte dei paesi dell’eurozona, tra il 2009 e il 2012, hanno avuto un impulso fiscale negativo (vale a dire hanno globalmente ridotto il deficit al netto delle componenti cicliche). I dati mostrano chiaramente che che l’austerità è negativamente correlata con la crescita del Pil. La favola dell’”austerità espansiva”, la dottrina portata avanti da economisti di successo secondo cui tagliare le spese aumenta il Pil, si è rivelata per quello che era. Una favola, appunto.
Gli effetti negativi dell’austerità hanno rilanciato il dibattito sulla dimensione dei moltiplicatori fiscali. Il moltiplicatore misura l’effetto di una variazione del deficit pubblico sul Pil. Può essere elevato se la spesa pubblica innesca, aumentando occupazione e potere d’acquisto del settore privato, spese aggiuntive da parte di quest’ultimo. Ma può essere inferiore a uno se la spesa pubblica non va ad aggiungersi a quella privata ma a sostituirla (crowding out). A sua volta, il deficit pubblico è influenzato dal Pil: nei periodi di bassa crescita diminuiscono le entrate fiscali e aumenta la spesa sociale, aumentando il deficit. Se il moltiplicatore è elevato, un consolidamento delle finanze pubbliche avrà un effetto recessivo importante. E la recessione può avere impatto negativo sul deficit, se questo è sensibile al ciclo. L’austerità può essere recessiva e controproducente. Prima della crisi, il Fondo monetario internazionale, la Bce e la Commissione, tradizionalmente scettici sul ruolo dell’intervento pubblico in economia, si accordavano su un valore del moltiplicatore abbastanza basso, intorno a 0,5. Una riduzione del deficit di un punto comporterebbe cioè una riduzione del Pil di mezzo punto. I piani di salvataggio per i Paesi in difficoltà si basavano su queste stime: per quanto draconiana, l’austerità avrebbe provocato al più una blanda recessione, e avrebbe rimesso in sesto le finanze pubbliche, così stimolando domanda privata e crescita. Non è andata così. Il valore del moltiplicatore dipende da fattori che i modelli di Fondo e Commissione tendono a sottostimare, come per esempio l’interazione con la politica monetaria, o gli effetti di programmi di austerità condotti in più paesi simultaneamente.(è ormai famoso il mea culpa[4] del Fondo Monetario, nell’autunno 2012, che ha riconosciuto di aver sottostimato i valori dei moltiplicatori, e quindi l’impatto negativo dell’austerità). E così i paesi in difficoltà si sono trovati a gestire crisi del Pil oltre le peggiori aspettative.
C’è di peggio. Non solo l’austerità non porta crescita, ma fatica anche a raggiungere il proprio obiettivo principale, vale a dire il ristabilimento della sostenibilità delle finanze pubbliche. I paesi che hanno condotto le politiche più restrittive sono quelli che hanno visto il loro debito (in rapporto al Pil) crescere di più. Ovviamente, una correlazione non significa causazione. Rimane tuttavia il fatto che il modo più efficace di garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche è una robusta crescita dell’economia. È celebre la frase di Keynes per cui è il boom, non la recessione, il momento giusto per l’austerità.
Ai partigiani dell’austerità rimane un ultimo argomento. È vero, l’austerità è recessiva; ed è vero che proprio per questo fatica a stabilizzare il debito. Essa rimane tuttavia l’unica politica possibile per liberare le forze vive del mercato e ritrovare una crescita sostenibile nel lungo periodo. Si tratterebbe insomma di soffrire oggi per avere più crescita domani. Ma anche questo sembra un argomento opinabile. Ho avuto modo di sostenere[5] che dopo sei anni di crisi la zona euro è meno coesa di quanto non fosse nel 2007. Gli squilibri preesistenti sono stati riassorbiti in modo asimmetrico, e la recessione ha avuto un impatto negativo sulle prospettive di crescita di lungo periodo delle economie periferiche, con effetti devastanti sull’accumulazione di capitale fisico e umano. Oltre ad aver pagato un prezzo altissimo durante la crisi, Grecia, Spagna, Portogallo, e anche l’Italia, hanno accumulato un deficit di investimento tale da mettere una seria ipoteca sulla loro capacità di crescita di lungo periodo.
Il presidente Napolitano ha ragione da vendere a reclamare la fine dell’austerità. E anche di farlo a Strasburgo. Una politica marcatamente keynesiana a livello europeo[6] non solo sosterrebbe la crescita, ma aumenterebbe le probabilità di successo per le riforme dei Paesi del Sud. Riforme e consolidamento fiscale sono meno dolorose e hanno più speranza di successo in un contesto globale di forte crescita. Lo sanno bene proprio i tedeschi, che nel 2003-2005 hanno potuto contare sulla domanda proveniente tra l’altro dai Paesi oggi in crisi per assorbire parte dei costi di breve periodo delle riforme Hartz[7].
Ma il presidente dovrebbe parlare con il suo omologo francese, François Hollande, che ha recentemente annunciato, con il suo “patto di responsabilità” che la priorità era il sostegno dell’offerta e non della domanda[8]. Dovrebbe parlare con Angela Merkel e con i suoi alleati di governo socialdemocratici, che sull’austerità si muovono all’unisono. Dovrebbe parlare con il premier Letta, che solo pochi giorni fa in Kuwait ha ancora vantato i meriti delle cure lacrime e sangue degli ultimi anni. Dovrebbe infine e soprattutto parlare con l’inquilino del quirinale, che si è fatto garante di due governi, Monti prima e Letta poi, che hanno fatto delle prescrizioni emanate da Bruxelles il solo faro della propria politica economica.
* Ofce, SciencePo Paris e Luiss School of European Political Economy, Roma
Twitter: @fsaraceno[9]
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