Volkswagen negli Usa apre ai sindacati i repubblicani del Tennessee insorgono
NEW YORK — La Volkswagen vuole introdurre la concertazione sociale nei suoi stabilimenti americani. Per farlo ha bisogno di un interlocutore qui sconosciuto. Si chiama sindacato. Ed è subito polemica: la destra repubblicana denuncia la “congiura” tedesca come un attentato al libero mercato. Accade a Chattanooga nel Tennessee, uno di quegli Stati del Sud dove i repubblicani regnano. E dove il sindacato è praticamente fuori legge: da anni norme punitive rendono quasi impossibile il tesseramento, il negoziato organizzato, la contrattazione collettiva. E’ questo il segreto dietro la rinascita del profondo Sud, dove molte aziende americane e multinazionali straniere hanno investito per approfittare di salari bassissimi. E’ il modello Electrolux, ma applicato all’interno di uno stesso paese: concorrenza interna e dumping sociale, fanno degli Stati come Tennessee, Alabama, Mississippi, un’interessante alternativa alle delocalizzazioni in Cina (o in Polonia). Il problema è che la Volkswagen non ci sta. «La nostra azienda — dice il portavoce di Volkswagen America, Scott Wilson — apprezza il diritto dei lavoratori ad essere rappresentati, in tutte le sue fabbriche». Quella del Tennessee, creata nel 2011, oggi ha 1.600 dipendenti e fu costruita con 577 milioni di dollari di sussidi statali.
L’avesse saputo, il governatore repubblicano Bill Haslam… si stava mettendo il nemico in casa. Oggi Chattanooga diventa il cavallo di Troia del United Auto Workers, il sindacato americano dei metalmeccanici. Al quale i manager tedeschi srotolano il tappeto rosso. Per la destra, questa fabbrica diventa uno scandalo insopportabile. Il governatore Haslam, il senatore locale Bob Corker, protestano indignati per un accordo tra manager e operai che secondo loro «danneggia la competitività dello Stato e la sua attrattiva per futuri investimenti». Il timore è che l’esempio Volkswagen possa contagiare altre due case tedesche, Mercedes e Bmw, anche loro con stabilimenti nel Tennessee. Si mobilita un guru del neoliberismo, Grover Norquist, star del pensiero di destra che ha ispirato diversi movimenti anti-tasse.
Un’organizzazione confindustriale tappezza di manifesti la città: «I sindacati hanno divorato Detroit. Il loro prossimo pasto sarà Chattanooga». A nulla serve che i top manager della Volkswagen, una delle case automobilistiche più competitive del pianeta, si affannino a spiegare che a casa loro il dialogo con i sindacati non ha mai rovinato l’azienda. Ad aizzare gli animi c’è Detlef Wetzel, il capo del sindacato tedesco IG Metall: «Rifiutare i sindacati significa respingere uno dei pilastri della democrazia. Allora tanto vale andare a produrre autmobili in Corea del Nord». Il Wall Street Journal, oltraggiato, intitola: “Pyongyang, Tennessee”. Sono avvisaglie di una sfida più grossa: tra un anno scadono i contratti nazionali dei metalmeccanici Usa. Che vogliono rimettere in discussione le concessioni d’emergenza fatte nella crisi 2008: cioè il doppio regime salariale, con buste page dimezzate per i neoassunti. Problemi in vista anche per la Chrysler, che su quello sconto retributivo ha fondato il suo rilancio.
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