by Sergio Segio | 30 Gennaio 2014 10:06
Dal 22 gennaio è visibile sul sito del ministro della Coesione Territoriale «La Strategia Nazionale per le Aree interne». La Strategia, lanciata dal ex ministro Fabrizio Barca più di un anno fa, oggi comincia a muovere i primi passi con un progetto pilota. A questo proposito su questo giornale ha scritto Piero Bevilacqua: «Si tratta di un progetto che, per visione e modo di procedere, si distacca nettamente dal modello di sviluppo economico tardo-novecentesco rappresentato dalla Tav… Sono due strade opposte e culturalmente inconciliabili».
Le aree interne sono le zone geografiche del nostro paese meno servite dai servizi pubblici, individuate attraverso degli indicatori che misurano la lontananza dei territori da scuole, ospedali, stazioni, in termini di distanza e raggiungibilità. Coincidono con quelle aree che, dall’inizio dell’età industriale, perdono popolazione a favore delle città, dei fondovalle, della costa. Si tratta quasi esclusivamente di regioni montuose il cui paesaggio porta le tracce di un secolare sfruttamento intensivo di acqua, risorse minerarie, patrimonio boschivo. Oggi in questi luoghi si sopravvive soprattutto grazie ai trasferimenti pubblici, le pensioni, l’impiego nelle minuscole strutture dell’amministrazione pubblica locale, e a piccole attività economiche; aree omogenee dal punto di vista sociale e scarsamente conflittuali. Non sono necessariamente povere, ma in tutte i beni pubblici scarseggiano e sono malridotti, gli ospedali sono lontani, le scuole vuote, le donne non lavorano, gli uomini praticano un pendolarismo che assomiglia a una forma di emigrazione, i giovani che possono vanno a studiare fuori e non tornano.
A guardarle con maggiore attenzione, le aree interne non sono tutte uguali. In alcune l’emigrazione appare come un fenomeno fisiologico, di riequilibrio naturale, e a fronte di cittadini che se ne vanno, si moltiplicano le tracce di nuovi arrivi. Si tratta per lo più di giovani, con esperienza di lavoro e studio maturate altrove, impegnati nella costruzione delle condizioni materiali della loro vita, come nuovi coloni, in luoghi dove non esistono opportunità di lavoro. Queste aree interne sono fortunate se i cittadini sono in grado di organizzarsi, di promuovere una classe dirigente nuova, nel tentativo di contrastare i meccanismi che li condannano, e offrire una visione alternativa di futuro.
Rimangono comunque territori fragilissimi: per innescare un processo di desertificazione di un’intera area basta che il numero di bambini non sia più sufficiente ad aprire una prima elementare, che chiuda una scuola, che muoia la cartolibreria che viveva della scuola, e così via.
La Strategia prova a puntare su queste aree in movimento, in una logica di riequilibrio dei servizi e di promozione dello sviluppo e del lavoro. E prova a intervenire in maniera nuova, andando a raccogliere sui territori le dinamiche nate dalla collaborazione fra cittadini e amministrazioni, accompagnando quelle più promettenti, trasformando i conflitti in laboratori verso nuove modalità di relazione fra istituzioni e abitanti.
Ci sono poi le aree interne all’apparenza disperate, territori muti, dove il drenaggio continuo di uomini e attività economiche produce smarrimento, subalternità, assenza di futuro. La prima cosa che colpisce, muovendosi in queste aree, non è la mancanza di servizi, ma l’incapacità da parte di chi le abita di esprimere bisogni e rivendicare diritti, anche i più elementari. Sono luoghi dove si impara la lezione amara che più la gente viene stritolata, meno reagisce.
Qui l’azione della Strategia ha un altro segno, e si muove in discontinuità rispetto a quello che è stato fatto negli ultimi vent’anni di «sviluppo locale». Punta a portare o a rafforzare i servizi pubblici, promuovendo la loro gestione associata fra i comuni e una riorganizzazione della spesa ordinaria dei ministeri, mettendo al centro interventi su scuola, sanità, infrastrutture, messa in sicurezza del territorio, creando concrete opportunità di lavoro: in pratica opera sulle precondizioni per invertire il processo di impoverimento umano e materiale.
Questa prima fase della Strategia necessita della messa a punto di nuovi strumenti di ascolto del territorio, con una approccio che si avvicina a quello del civil servant inglese, per cui gli uffici, piuttosto che essere ingranaggi di una catena gerarchica di politiche scelte dall’alto, si pongono al servizio del cittadino, inteso come committente.
Inoltre, la Strategia interroga profondamente anche la politica. Il tema dello sviluppo sociale ed economico delle aree interne è, infatti, intrecciato a quello della trasformazione delle strutture decisionali, economiche e sociali del paese. Il modello democratico rappresentativo tradizionale, fondato sul peso elettorale dei territori, contribuisce a marginalizzare, nei processi decisionali e nell’attenzione pubblica, le aree scarsamente popolate; è tempo, anche per lo Stato, di fare i conti con le nuove forme sempre più diffuse di attivismo delle istituzioni locali e dei cittadini, alle quali troppo spesso si risponde soltanto con la repressione.
Proprio per questi motivi siamo difronte a un’operazione non facile che già trova resistenze negli interessi dei rentiers locali, coloro che beneficiano delle condizioni di marginalità delle aree interne, e di strutture fortemente conservative all’interno della stessa Pubblica amministrazione. Per avere successo, la Strategia deve avere le fattezza di una politica allo stesso tempo industriale e di tutela, meno dirigista e meno localista; deve essere ragionevole, in grado di fare i conti con la scarsità di risorse, ma ambiziosa, puntando a invertire un trend secolare di spopolamento, riaprendo un dibattito pubblico in grado di contrastare l’immagine di residualità che ha guidato le politiche di sviluppo su questi territori.
*ricercatore, territorialista
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