Topologia della memoria

by Sergio Segio | 18 Gennaio 2014 8:29

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Non da oggi la cul­tura archi­tet­to­nica occi­den­tale si misura con la sua per­dita di legit­ti­mità e con la sua mode­sta capa­cità di inci­dere e sem­mai risol­vere i pro­blemi della città. Le ragioni sono mol­te­plici e note: riguar­dano il mestiere dell’architetto, ma anche come que­sto si rac­conta e si spiega la sua atti­vità. Già Ignasi de Solà-Morales ne dette una giu­sta spie­ga­zione: «Una gran­dis­sima parte dell’architettura che si costrui­sce e una parte non tra­scu­ra­bile di quella che si inse­gna si basano su cli­ché che non si discu­tono più, e su deci­sione este­ti­che ed eti­che che ven­gono assunte senza revi­sioni cri­ti­che di alcun genere». Man­fredo Tafuri fu ancor più radi­cale con­si­de­rando il lin­guag­gio cul­tu­rale dell’architettura un’«attività residuale».

C’è chi, però, intorno alle que­stioni del nar­rare l’architettura e sulle ragioni pro­fonde del loro muta­mento epi­ste­mo­lo­gico non si arrende e si inter­roga su come la sto­ria — o la «sto­ria cri­tica» – sia neces­sa­ria e «utile» per l’architettura. Carlo Olmo è tra que­sti e nel suo ultimo sag­gio dal titolo Archi­tet­tura e sto­ria. Para­digmi della discon­ti­nuità (Don­zelli, pp.180, euro 29,00) si fa carico di insi­stere in modo «aspro e medi­ta­tivo» sull’importanza di scri­vere di archi­tet­tura soprat­tutto in una fase quale quella attuale, in cui si «opa­ciz­zano» troppe «parole chiave».

Intrecci di storie

Lo sto­rico tori­nese riprende in parte i temi affron­tati nel pre­ce­dente sag­gio Archi­tet­tura e Nove­cento (Don­zelli, 2010); ma in que­sto ultimo le sue ana­lisi si con­cen­trano mag­gior­mente sui dispo­si­tivi, spesso appa­rati reto­rici o sim­bo­lici, ai quali la sto­rio­gra­fia di archi­tet­tura ricorre soprat­tutto in età moderna.

Olmo ne illu­stra alcuni fon­da­men­tali per mezzo del sin­tagma – con rife­ri­mento alla semio­tica di Bar­thes — quali ad esem­pio: testimonianza-verità, città-democrazia, narrazione-testo, genealogia-discontinuità. La fina­lità è quella di rin­trac­ciare nel tempo il cam­bia­mento di signi­fi­cato di que­ste parole e far com­pren­dere come «pre­giu­dizi, pri­vi­legi e apo­rie che forse vale la pena met­tere in discus­sione», hanno avuto vita sull’eccessiva con­si­de­ra­zione dell’aspetto «par­lante» dell’opera architettonica.

Da sem­pre, infatti, per Olmo l’architettura non è «ridu­ci­bile» al suo lin­guag­gio, alla sola sua dimen­sione, pur irre­mo­vi­bile, dell’arte. Il suo signi­fi­cato e valore si tro­vano spesso altrove, nello stra­ti­fi­carsi di situa­zioni quali il con­te­sto, le com­mit­tenze, le pro­fes­sioni, i codici e le norme, ai quali lo sto­rico non può essere indif­fe­rente. Il rischio che si corre a non tenerne conto è l’impoverimento della sto­ria dell’architettura e la con­se­guenza quella che sem­pli­fi­care le fonti — per­ché a volte troppe, in più luo­ghi e stra­ti­fi­cate negli anni – porti alla «ridu­zione della complessità».

Occorre aggiun­gere che pur­troppo l’«unicità» fisica dell’opera archi­tet­to­nica nella sua natura di «docu­mento», ha fatto dimen­ti­care spesso le altre «sto­rie» che la com­pon­gono e l’intreccio delle sue «ecce­zioni». Rien­trano tra le ecce­zioni, ad esem­pio, l’«anacronismo» e l’«alterità» che ren­dono l’architettura qual­cosa «altro da sé» in quanto sem­pre «il ripo­sante lin­guag­gio dei tipi, degli stili, delle ricor­renze rie­sce a nascon­dere l’alterità». Per soste­nere le sue tesi, Olmo fa rife­ri­mento a una vastis­sima biblio­gra­fia, solo in parte rife­rita alle tra­di­zioni sto­rio­gra­fi­che (Bloch, de Cer­teau) che richiede al let­tore un serio impe­gno e atten­zione. Il sag­gio, infatti, si dà come un «eser­ci­zio epi­ste­mo­lo­gico della com­ples­sità» che in ogni capi­tolo ci fa sco­prire i «tanti recinti in cui la sto­rio­gra­fia archi­tet­to­nica vive e, forse, prospera».

La prova di que­sta com­ples­sità risalta nel richiamo ad una serie di luo­ghi emble­ma­tici che rile­vano lo straor­di­na­rio intrec­cio dei temi eco­no­mici, giu­ri­dici e cul­tu­rali che accer­chiano l’architettura: dai pas­sa­gesgalè­ries pari­gini di Ben­ja­min, uno spa­zio denso di imma­gini e figure come saprà resti­tuire solo la ricerca sulla memo­ria col­let­tiva di Mau­rice Hal­b­wa­chs, alla Mez­quita di Cor­dóba, un’architettura sacra, «con­tesa» e ogni volta rico­struita ser­ven­dosi dell’oblio per legit­ti­mare ogni sua nuova tra­sfor­ma­zione. Per Olmo anche la sto­rio­gra­fia urbana è capace di resti­tuirci una «pro­du­zione sociale di senso» se ade­gua­ta­mente ricer­cate e inter­pre­tate le sue fonti. L’esempio è dato dalle vicende della città rifor­mata. Nella Torino di Carlo Ema­nuele III e di Bene­detto Alfieri, come nella Lisbona post ter­re­moto di Manuel da Maia, il rifor­mi­smo illu­mi­nato si com­prende bene dai decreti e atti che con­ce­dono aper­ture alla pro­prietà indi­vi­duale: pro­mo­tori immo­bi­liari e architetti.

Tracce este­tiz­zanti

Sulla catastrofe-ricostruzione della capi­tale por­to­ghese scrisse anche Vol­taire cogliendo lo spunto per una rifles­sione cri­tica sul legame tra «azioni umane», eventi e destino. Olmo ne cita l’episodio solo per ricor­darci che qual­siasi archi­vio o fonte rimanda alle «azioni, molto più che a cose». Inol­tre che «la deriva este­tiz­zante per la sto­ria dell’architettura nasce da un imma­gi­na­rio sva­lu­tato che si fonda sulla per­si­stenza e ripe­ti­ti­vità delle imma­gini» misco­no­scendo «attori, pro­cessi e pro­dotti, ma anche cul­ture giu­ri­di­che stra­ti­fi­cate in secoli» nella sto­ria delle città capi­tali euro­pee. Una delle parole più ricor­renti nel sag­gio oltre a «docu­mento» è «testi­mo­nianza». Lo sto­rico tori­nese ne rias­sume le que­stioni ese­ge­ti­che che la riguar­dano — dal Tal­mud alla Bib­bia — intorno al Tem­pio di Geru­sa­lemme, pro­se­guendo con il dibat­tito sul tema della memo­ria che a Ber­lino come a New York ha riguar­dato la musea­liz­za­zione della «Topo­gra­fia del ter­rore» — dai campi di lavoro for­zati del Terzo Reich al muro della Ddr — e la rico­stru­zione delle Twin Tower dopo l’11 settembre.

Tra valori rela­tivi o uni­ver­sa­li­stici il signi­fi­cato della testi­mo­nianza in archi­tet­tura, spiega Olmo, si svi­luppa nel corso almeno degli ultimi due secoli — da Les­sing fino a Ricœur — intorno al pro­blema della sua inter­pre­ta­zione: il «valore di testi­mo­nianza è ter­reno di scon­tro, che sia un muro, un iso­lato o un pae­sag­gio urbano, anche solo una pie­tra». Ora l’architettura in quanto testi­mo­nianza — sino­nimo di memo­ria o di sem­plice rac­conto di un fatto — si trova con­ti­nua­mente divisa tra l’essere «pro­dut­trice di un imma­gi­na­rio che arric­chi­sce con­ti­nua­mente di significati».

Ancora una volta, quindi, lo sto­rico si muove tra le insi­die che nascon­dono alcune parole ricor­renti tanto che l’autore con­si­dera etico un mag­giore uso dell’«esercizio filo­lo­gico». Per Olmo, infatti, solo nella mag­giore atten­zione al loro uso e al loro signi­fi­cato la sto­ria dell’architettura potrà risol­le­varsi dalla mode­sta con­si­de­ra­zione che vive oggi.

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