Tangentopoli turca, Erdogan silura venti procuratori

by Sergio Segio | 18 Gennaio 2014 17:06

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Ter­re­moto giu­di­zia­rio. È così che i gior­nali tur­chi apo­stro­fano la rimo­zione di venti pro­cu­ra­tori capo, sta­bi­lita gio­vedì dall’Alto con­si­glio dei giu­dici e dei pro­cu­ra­tori (Hsyk), il mas­simo organo delle toghe, nella prima riu­nione pre­sie­duta dal nuovo tito­lare della giu­sti­zia Bekir Boz­dag. L’attacco alle cit­ta­delle del potere è l’ultima di una serie di mosse con cui Erdo­gan sta rea­gendo, dura­mente, alle inchie­ste del mese scorso sul giro di tan­genti in zona gover­na­tiva, car­tina di tor­na­sole dello scon­tro in corso tra Erdo­gan e l’altro peso mas­simo dell’islam poli­tico turco, Fetul­lah Gulen. È il capo del potente movi­mento culturale-religioso Hiz­met. Dieci anni fa mobi­litò i suoi seguaci e li fece votare in massa per Erdo­gan, per poi con­ti­nuare a soste­nerlo. In tempi recenti ha però preso le distanze. Ma la trama è complessa.

A metà dicem­bre, alla luce di un pre­sunto gro­vi­glio di tan­genti e nepo­ti­smi, sono finiti in cella i figli di tre mini­stri. Le inda­gini hanno lam­bito anche Bilal, uno dei ram­polli di Erdo­gan. Che ha dap­prima varato un ampio rim­pa­sto, nomi­nando dieci nuovi mem­bri nella squa­dra di governo. Dopo­di­ché ha ini­ziato a pur­gare la poli­zia. Si cal­cola che circa due­mila agenti siano stati declas­sati. Ave­vano con­tri­buito, chi più diret­ta­mente e chi meno, alle inchie­ste sulle tangenti.

Adesso a finire sulla gra­ti­cola sono i magi­strati. Tra que­sti anche il pro­cu­ra­tore capo di Istan­bul, Turan Colak­kadi. D’altronde è in riva al Bosforo che sono par­tite le inda­gini sulla tan­gen­to­poli. Un golpe pro­mosso da Gulen gra­zie alle sue sponde nelle que­sture e nei tri­bu­nali, secondo Erdogan.

Gli esperti di cose tur­che non spo­sano la tesi del primo mini­stro, ma con­ver­gono sul fatto che tra lui e Gulen è in corso una sorta di resa dei conti. La let­tura più get­to­nata è quella secondo cui Gulen, in seguito ai fatti di Gezi Park, ha ini­ziato a temere che il “modello turco”, mix abba­stanza cali­brato di islam e demo­cra­zia, potesse dera­gliare. Da qui la tan­gen­to­poli: non un golpe, ma un modo per inti­mare a Erdo­gan di non esa­ge­rare, né con le misure repres­sive, né con gli strappi in poli­tica estera (vedi alla voce Israele) e né con la sete di potere. Sem­bra infatti che, dopo due man­dati al governo, voglia can­di­darsi alle pre­si­den­ziali di ago­sto. Intanto però c’è la tor­nata ammi­ni­stra­tiva, a marzo. Erdo­gan e il suo Par­tito della giu­sti­zia e dello svi­luppo (Akp) dovreb­bero ancora una volta rastrel­lare parec­chi voti. Tut­ta­via le pur­ghe di que­ste set­ti­mane potreb­bero costare qual­che voto.

Ma forse è l’economia il fat­tore che più di ogni altro può met­tere all’angolo il pre­mier. Dopo una gran­dis­sima sta­gione di cre­scita, segnata da espan­sioni “cinesi” dei red­diti pro capite, della pro­du­zione indu­striale, delle espor­ta­zioni e di decine di altre varia­bili, Ankara sem­bra ral­len­tare. Colpa del tape­ring, vale a dire la fine del pro­grammi di sti­moli all’economia ame­ri­cana pro­mosso dalla Fede­ral Reserve. Ne hanno bene­fi­ciato tutti i paesi emer­genti, Tur­chia com­presa. Già quando è stato annun­ciato le loro eco­no­mie hanno ini­ziato a sof­frire e le rispet­tive monete si sono afflo­sciate. La lira turca è scesa ai minimi sto­rici nelle ultime set­ti­mane di tor­menta poli­tica. Segnale chiaro: se oscil­la­zioni eco­no­mi­che e insta­bi­lità isti­tu­zio­nale doves­sero ulte­rior­mente sal­darsi Erdo­gan potrebbe pas­sare dei guai.

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