Soglia e liste, la minoranza pd non molla

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ROMA — La minoranza del Partito democratico è pronta a una «partita lunga», sulla legge elettorale. Per modificarla ancora, fino all’ultimo momento utile. In un clima fermo, ma piuttosto disteso, per ora. «Il testo è a un passo dalla direzione giusta», ha detto Cuperlo all’Unità . Merito della minoranza «e della trattativa condotta da Renzi». La partita — è la promessa — avverrà tutta «alla luce del sole» (Fassina). Ovvero «a viso aperto, senza imboscate attraverso il voto segreto», spiega il deputato Alfredo D’Attorre, lucano, laureato alla normale di Pisa.
Si proverà a cambiare la legge Renzi-Berlusconi fino alla fine, raccontano i parlamentari bersaniani-dalemiani, perché il dominus qui è il Parlamento, non Silvio Berlusconi. «La legge va migliorata attraverso il protagonismo del Parlamento», secondo Fassina, appunto. Ma se i nuovi tentativi di modifica trovassero un muro? Nessuno si avventura in previsioni, ma non pare proprio il momento di agguati al segretario Renzi, sarebbe un danno per tutti. Certo, sfoghi e vendette in eventuali voti segreti non sono escludibili a priori.
Cambiare, ma cosa? I punti chiave che tormentano la minoranza Pd sono tre. Sentiamo D’Attorre: «Le liste bloccate vanno cancellate. Proponiamo possibili alternative: collegi uninominali, primarie obbligatorie per tutti i partiti, doppia preferenza di genere. A proposito di quest’ultima, va comunque garantita la rappresentanza femminile. E va abbassato il limite per ottenere parlamentari se un partito si presenta da solo: l’8 per cento è troppo alto, una soglia che non esiste in Europa». Poi, molte riserve sulla norma chiamata «salva-Lega», che prevede l’approdo in Parlamento per chi non superi l’8 per cento, ma ottenga almeno il 9 in tre (o due) Regioni. «Una norma salva-Lega e ammazza Vendola», dice il deputato Danilo Leva.
Sulla parità di genere Matteo Richetti, parlamentare molto vicino a Renzi, ha convenuto che si tratta di «un tema imprescindibile». Tuttavia, il vero nodo sono le liste bloccate e decise dalle segreterie dei partiti, elemento della trattativa che Berlusconi ha fatto pesare sul tavolo.
La strategia della minoranza Pd non si ferma qui. «Se con la legge elettorale riusciamo finalmente ad avviare il processo delle riforme — dice Leva — dobbiamo ottenere garanzie affinché lo stesso processo arrivi al termine». Vale a dire: la riforma elettorale non può restare staccata dalla fine del bicameralismo, quindi dalla trasformazione del Senato, e dalla modifica del titolo V della Costituzione sui poteri di Regioni, Province e Comuni. «Berlusconi porta a casa molte cose con la legge elettorale — dice Leva — Dobbiamo trovare il modo di legarlo anche al miglioramento del sistema democratico». Legarlo, come? Per esempio con l’emendamento presentato in commissione Affari costituzionali che prevede l’entrata in vigore della nuova legge elettorale solo dopo l’approvazione della riforma del Senato. Emendamento che servirebbe anche ad allontanare il voto anticipato. Renzi, comunque, ha annunciato ieri che Pd e Forza Italia sono d’accordo per arrivare entro il 15 febbraio a un testo comune su Senato e Regioni.
Vanno segnalate le mosse «unitarie» del Pd. Ieri al Senato il gruppo dei Democratici ha dato l’ok unanime alla trasformazione di Palazzo Madama. Oggi il programma prevede che il Pd, compatto, voterà no a tutte le ipotesi di incostituzionalità («pregiudiziali») della nuova legge elettorale. Alla fine, fra un paio di settimane, c’è la possibilità che tutto il lavoro di correzione del testo della legge elettorale si coaguli in un voto segreto. «Pd e Fi hanno i numeri, ma la palla passerà al senso di responsabilità dei singoli parlamentari», ha sintetizzato il relatore della legge in commissione, Sisto (Forza Italia). Oltre cento sono i deputati della minoranza Pd, con l’orrendo ricordo dei 101 che, in segreto, impedirono a Prodi di salire al Quirinale. Il clima resta tendenzialmente armonico. Civati, candidato sconfitto alle primarie, dichiara: «Ho detto a Renzi che questa legge elettorale è vomitevole. Ma in aula voterò ciò che ha deciso la direzione del mio partito».
Andrea Garibaldi


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