Shoah, il culto della memoria non basta rivediamo le vecchie categorie politiche

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«Come ricordare?» è il sottotitolo del libro dello storico francese Georges Bensoussan, L’eredità di Auschwitz , appena uscito per Einaudi in una nuova edizione rivista e ampliata. «L’era delle commemorazioni — scrive Bensoussan — esprime l’inquietudine di un mondo privato di senso». E continua: «La ricerca di senso contribuisce a banalizzare ulteriormente la specificità di ogni avvenimento; e cioè, nel nostro caso, ciò che fa dello sterminio del popolo ebraico una cesura della Storia». Il «culto della memoria» diventa garanzia della nostra identità, ma non riesce a soddisfare la conoscenza (e la coscienza) di un crimine senza proporzioni.
La domanda che si lega alla prima è: come insegnare la Shoah alle generazioni presenti e future? Non basta il racconto emotivo dell’orrore, come accade spesso alla vigilia delle rievocazioni: lo afferma con decisione (e dolorosamente) un altro libro uscito in queste settimane, Contro il giorno della memoria di Elena Loewenthal (Add Edizioni). Lo storico francese si chiede se questo «tumulto della memoria», piuttosto che presentarsi come la cancellazione di un tabù, non si riveli in definitiva un «parlare senza fine per non dire l’essenziale»: «Talvolta, effettivamente, si commemora per dimenticare, e certi ricordi ostacolano la memoria».
È un dato di fatto che il moltiplicarsi delle commemorazioni non ha affatto impedito (né almeno attenuato) la crescita dell’antisemitismo in Europa. La nostra arma, avverte Bensoussan, non è la memoria ma la Storia: «la politica della memoria deve mutarsi in politica della storia, se non addirittura in un imperativo per la comunità». Il genocidio ebraico non fu una «parentesi» nella storia umana (neanche il fascismo italiano lo fu), un gesto di prevaricazione violenta da parte di un manipolo di assassini, ma un crimine di Stato diventato l’opera di una collettività, cui contribuirono non soltanto l’antisemitismo, ma la burocrazia e la tecnologia. Dunque, se non si vuole sminuirne la portata, «questo disastro costringe a rivedere le categorie politiche tradizionali». La pedagogia della memoria, che sfocia in un generico appello alla tolleranza o al dovere di non dimenticare, non è sufficiente, può servire solo a sistemare provvisoriamente la nostra coscienza. Partendo dal lungo processo che ha portato ad Auschwitz, è necessario esaminare quali siano i legami tra barbarie e progresso, tra crimine e (apparente) normalità. Educare alla critica civile tutti i giorni dell’anno.


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