SALGADO. LA MIA LETTERA D’AMORE ALLA TERRA SCRITTA CON LE FOTO

by Sergio Segio | 30 Gennaio 2014 9:34

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PARIGI «Volevo mostrare il piacere che si prova stando a contatto della bellezza della natura» Sebastião Salgado presenta così le straordinarie fotografie di Genesi, il progetto cui si è dedicato negli ultimi anni e che ora viene proposto a Venezia, nella Casa dei Tre Oci. La mostra – che resterà aperta dal 1° febbraio all’11 maggio – vuole essere un invito ad amare e a salvaguardare il pianeta, cambiando i nostri comportamenti e ritrovando la necessaria armonia con la natura. Una natura di cui le immagini del celebre fotografo brasiliano sottolineano la dimensione più incontaminata e selvaggia. Non a caso – accanto alle fotografie di alcune popolazioni sperdute dell’Amazzonia, della Nuova Guinea, dell’Etiopia o del nord della Siberia – la maggior parte degli scatti ritraggono animali maestosi e splendidi paesaggi: «Genesi è una lettera d’amore alla terra scritta con la macchina fotografica », spiega Salgado, che tra qualche giorno compirà settant’anni. «Non volevo però fotografare la natura come un antropologo o un reporter tradizionale. M’interessavano invece le emozioni e il piacere di un viaggio durato otto anni attraverso alcuni dei luoghi più belli e isolati del pianeta ».
Per lei che ha sempre fotografato gli uomini, è stato difficile fotografare la natura?
«No, in fondo è la stessa cosa. Per fotografare gli uomini occorre rispettarli e comprenderli. Per la natura e gli animali mi sono mosso nello stesso modo. Durante tutti questi anni, il vero viaggio è stato dentro me stesso. Per conoscere l’altro da sé occorre conoscere se stessi. Il viaggio mi è servito a questo».
Genesi è un lavoro all’insegna del mito delle origini?
«In maniera inconscia, probabilmente è stato così. Per via del-l’età, ma anche per tutti gli anni passati a fotografare la sofferenza, la miseria e la violenza degli uomini, avevo bisogno di rigenerarmi e purificarmi. Fotografando la bellezza della natura, mi sono reso conto che anch’io facevo parte di questo universo affascinante. E ne sono stato felice».
In questi scatti la dimensione estetica è più marcata che nei suoi lavori precedenti?
«No. Per me, l’estetica è un linguaggio costante, non una variabile. Non a caso, mi hanno spesso rimproverato la dimensione troppo estetizzante delle mie foto, specie di fronte alla violenza e alla miseria. Questa però è la mia forma di scrittura, il mio stile. Cambiano i soggetti, non il mio linguaggio fotografico, che nasce sempre da una forma di partecipazione spirituale. Una foto, prima di essere uno sguardo critico, è capacità di materializzare questa partecipazione in un’immagine.
Certo, poi, è anche una forma di comunicazione che si rivolge agli altri. Le mie fotografie però non nascono dal desiderio di comunicazione, ma dall’istinto».
Una volta stampata, la fotografia sfugge all’intenzione del fotografo?
«Molto spesso è così, anche perché ciascuno di noi può leggere una foto in maniera diversa. Spesso, il pubblico vede nei miei scatti dettagli che io non ho mai visto. Si appropria delle mie immagini, le fa sue. E ciò vale soprattutto per le fotografie in bianco e nero, che hanno una dimensione più partecipativa».
Perché?
«Nelle fotografie a colori c’è già tutto. Una foto in bianco e nero invece è come un’illustrazione parziale della realtà. Chi la guarda, deve ricostruirla attraverso la propria memoria che è sempre a colori, assimilandola a poco a poco. C’è quindi un’interazione molto forte tra l’immagine e chi la guarda. La foto in bianco e nero può essere interiorizzata molto di più di una foto a colori, che è un prodotto praticamente finito».
Per questo lei ha sempre privilegiato il bianco e nero?
«Quando ho iniziato a fotografare, i colori erano molto saturi. C’era il rischio che prendessero il sopravvento sui soggetti che volevo mostrare, sulla dignità delle persone, sui sentimenti, sulla storia. La bellezza dei colori rischiava di cancellare tutto il resto. Nelle mie foto c’è tutta la mia vita, le mie idee, la mia etica. Oltretutto, una foto è sempre inscritta all’interno di una storia, a cui io partecipo direttamente, dato che di solito trascorro molto tempo nei luoghi o con le persone che vorrei fotografare. Dietro ogni scatto c’è questa continuità, questa partecipazione. E l’immagine deve riuscire a trasmetterle».
Immagino che molte volte si sia trovato di fronte al dilemma di
dover scegliere tra vivere e scattare una foto. Come ha risolto questa contraddizione?
«Ci sono molte cose che una foto non riesce a trasmettere. Ad esempio certi paesaggi grandiosi. Quando mi rendo conto che non riesco a cogliere quello che vorrei, allora lascio la macchina fotografica e mi limito a guardare, a vivere. In altre situazioni, invece, il dilemma è tra agire e fotografare. Davanti al dolore e alla sofferenza, mi è capitato spesso di non riuscire a fotografare, perché troppo scosso dalle emozioni. Mi sembrava più importante prendere in braccio un bambino morente e correre a cercare un medico. Altre volte di fronte alla violenza e all’umiliazione, mi sono vergognato di appartenere al genere umano e mi sono messo a piangere. Tutte le volte che una foto rischiava di ledere la dignità delle persone, ho preferito non scattare».
Significa che ogni volta la foto è il risultato di una scelta?
«Sempre. Si sceglie un soggetto, ma si sceglie anche se fotografare oppure no. Anche per questo, una foto non è mai oggettiva. Istintivamente il fotografo esprime un punto di vista, una visione del mondo, un modo di leggere la realtà. In maniera cosciente o incosciente, una foto è sempre soggettiva. L’oggettività fotografica non esiste».
Come decide che un’immagine è riuscita?
«Quando riesce a riprodurre e a trasmettere le emozioni che ho provato mentre scattavo. Naturalmente esistono molti diversi tipi di foto e diverse intenzioni fotografiche. Io appartengo alla famiglia di quei fotografi che vanno verso gli altri, verso il mondo. I fotografi che cercano di cogliere le emozioni e l’istantaneità del reale. Fotografi come Henri Cartier-Bresson, Josef Koudelka, Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna e tanti altri. Per me fotografare è un’avventura e una scoperta ».
Di formazione lei è economista. Cosa resta di quegli studi?
«Moltissimo. L’economia mi ha insegnato a guardare, contestualizzare, comprendere e sintetizzare. Inoltre, se non avessi avuto la formazione da economista, non so se mi sarei interessato allo stesso modo agli uomini e al mondo del lavoro. Insomma, anche se non appare sempre direttamente, gli studi di economia continuano ad agire dentro di me e a orientare il mio lavoro fotografico».

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