Sainte-Beuve, il fallimento di un gigante

by Sergio Segio | 4 Gennaio 2014 9:53

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La passione di conoscere un individuo che ispirava Sainte-Beuve non era meno ardente di quella che animò Tiziano e Van Dyck e Gainsborough e Fra Galgario e Goya. Come i grandi pittori non ignoravano una ruga e un colore del loro modello, Sainte-Beuve conosceva tutti i testi, i diari e le lettere dei suoi scrittori, le tradizioni storiche, i ricordi lasciati dai contemporanei, le lettere, le osservazioni e i commenti ispirati da coloro che intendeva rappresentare. Con quale passione parlava del passato. «Cosa c’è di più dolce e di più innocente che occuparsi con un’attenzione affettuosa ed esatta di una esistenza scomparsa, riafferrare una figura netta e distinta nel passato, approfondire il proprio impegno per ricomporla e mostrarla agli altri!» Mai, in nessun modo, intendeva deformare i caratteri e i particolari di ciò che era stato. Ma era posseduto dall’immenso desiderio di avvicinare il passato al presente, come se bastasse volgere il viso e lo sguardo per conoscere la conversione di Pascal, gli amori e le tristezze di Molière, la melanconia romanzesca di Chateaubriand nell’America settentrionale.
Quando conversava con i suoi amici e le sue amiche Sainte-Beuve possedeva una straordinaria curiosità e sottigliezza psicologica: conosceva i lineamenti, l’intelligenza e il cuore di coloro che frequentava. Molto volentieri era perfido: e gli echi della sua perfidia percorrono ancora oggi la storia letteraria dell’Ottocento. Su Victor Hugo e Balzac disse cose quasi vergognose. Con perfetta intuizione, utilizzò tutte le forme, nobili e ignobili, del suo acume. Siccome era un grande critico, sapeva benissimo che ritrarre Montaigne, Proust e Racine non aveva nulla in comune con l’esercizio quotidiano di ritrarre i propri conoscenti. I suoi conoscenti erano, quasi sempre, una combinazione psicologica incoerente e casuale. Come la sua mano sovrana li rappresentava, Montaigne e Pascal e Racine erano cosmi: cosmi interi e compatti, dove tutti i sentimenti, gli impulsi, le fantasie, i segni del volto avevano rapporto gli uni con gli altri.
Qualche volta, si perdeva nella moltitudine dei dettagli: ma se trovava il particolare giusto, attraeva tutti gli altri dettagli, e l’intero ritratto si raccoglieva attorno ad esso. «A poco a poco si sente nascere la somiglianza — scriveva —, e il giorno, il momento in cui si è colto il tic famigliare, il sorriso rivelatore, la piega indefinibile, la ruga intima e dolorosa che si nasconde invano sotto i capelli già brizzolati, in quell’attimo l’analisi scompare nella creazione, il ritratto parla e vive». A partire da questo momento, Sainte-Beuve aveva l’impressione di vedere . Là, a una grande distanza, in un punto del XVII o del XVIII secolo, qualcuno viveva: La Rochefoucauld discorreva teneramente e tristemente con Madame de La Fayette; Madame du Deffand, quasi cieca, sognava l’amico lontano in Inghilterra. Il passato era accanto a lui, coinvolto nella sua vita interiore.
Come diceva di sé stesso, Sainte-Beuve non aveva casa: malgrado le sue abitudini borghesi, era sempre in fuga da sé stesso e da qualcosa: viaggiava verso l’altrove; e via via che cambiava casa, cambiava stile, colore, fisionomia. Aveva qualcosa del viandante, del vagabondo, dell’ebreo errante, dell’attore che «muta ogni sera il costume, il volto, la parte». Ma Sainte-Beuve aggiungeva: «Lo spirito deve essere a casa propria sopratutto quando è fuori di casa propria». «Se dovessi giudicare da me stesso, direi: Sainte-Beuve non disegna un ritratto senza mirarvisi: con il pretesto di dipingere gli altri, è sempre un profilo di sé stesso quello che ci descrive». Strana condizione: vivere sempre nell’altrove, non a casa propria; e moltiplicare gli altrove, perché in questo gioco di metamorfosi successive si può scoprire una casa, che forse non è mai esistita. Dietro l’apparente bonomia sorridente di Sainte-Beuve, c’era un’estasi e un orrore dell’altro; un desiderio di espansione e di illimitato, che qualche forza interiore manteneva miracolosamente in equilibrio.
Qui Sainte-Beuve coglieva i suoi capolavori. Grazie al dono di abitare altrove come a casa propria , egli riusciva a usare l’inchiostro di Montaigne e di Pascal, di Madame de Sévigné e di Molière, di Diderot e di de Maistre. Talvolta, egli mimava meravigliosamente il tono e lo stile di un testo. «Il genio dell’ironica e mordente gaiezza possiede — diceva di Molière — anche la sua lirica: i suoi puri giochi, il suo riso scintillante, moltiplicato, che si prolunga quasi senza causa, che non ha interesse per il reale, come una fiamma volteggiante che si muove sempre più intensamente dopo che la combustione grossolana è cessata — un riso degli dèi, supremo, inestinguibile… È un comico sgorgante e imprevisto che, a suo modo, rivaleggia in fantasia col Sogno di una notte di mezza estate e La tempesta ». Altrove, in modo persino più grandioso, Sainte-Beuve raffigurava in una sola metafora — l’albero o gli alberi di Corneille — la totalità di uno scrittore e dell’uomo che aveva abitato il corpo di quello scrittore. Si tratta di una identità miracolosa della critica con l’opera d’arte: senza paragoni, credo, tranne che coi saggi di Baudelaire su Balzac, Madame Bovary e Delacroix, e con quelli di Proust su Nerval, Baudelaire e Flaubert; e col culmine di ogni possibile critica: Les Phares nelle Fleurs du mal .
Molto di rado Sainte-Beuve metteva in posa lo scrittore che ritraeva: sul fondo di una stanza, o a cavallo o in piedi davanti a una quercia. Di solito, diventava molto più mobile del proprio modello, spostandosi, circuendolo, ritraendolo da tutte le parti, alternando i ricordi e le riflessioni, passando dalla lacca al lieve tocco d’acquarello, al bulino. Ma gli importava anche il movimento del modello. Così, per esempio, cercava di risalire sempre più indietro nel tempo, quando lo scrittore era ancora un giovane che si stava formando e sviluppando. Parlava del suo ambiente, della sua famiglia, dei suoi amici; e, a poco a poco, descriveva le prime opere e infine i capolavori brillanti di una luce assoluta.
I toni dei ritratti di Sainte-Beuve erano moltissimi e variegatissimi: la cruda nota storica: l’analisi psicologica: l’aneddoto ironico: la lieve pigrizia borghese: la solennità eloquente: la morbidezza ereditata da Volupté ; e, più in alto di tutti, la tensione metafisica che aveva ispirato l’architettura di Port Royal . A tutte le frasi autocritiche, per quanto ispirate, preferirei questa: «Quello che ho voluto in critica letteraria, è stato di introdurvi una maggior dose d’incanto e allo stesso tempo più realtà ; in una parola, della poesia e insieme delle fisiologia ». Mirabile fu sempre l’impasto tra i due toni: il riferimento grezzo e la ondulazione sublime e morbida spiccavano per un istante, e poi si perdevano nella mezzatinta.
Sebbene fosse un grande critico letterario, Sainte-Beuve aveva l’acuta coscienza del proprio fallimento. Avvertiva di non avere abbastanza passione, e di essere divorato da una specie di indifferenza. Era volatile, vagabondo, andava dovunque lungo le strade, accontentandosi ai molti oggetti delle proprie fantasie: ritornava sui suoi passi, esauriva tutti i lati di una questione, confrontandola con sé stesso e divertendosi moltissimo a questo libero esercizio dello spirito. Ma temeva di mancare di grandezza, e di restare confinato in una amabilis insania . Assomigliava troppo a quel principe dei giornalisti, a quel genio dei tolleranti e dei leggeri, che fu Pierre Bayle.

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Qualche mese fa, l’editore Aragno ha pubblicato un’opera singolare. Dalle immense raccolte delle Causeries du Lundi (15 volumi) e dei Nouveaux Lundis (13 volumi), con cui Sainte-Beuve concluse la propria prodigiosa attività creativa, Vito Sorbello ha tratto I Lunedì. Principesse, amanti, salonnierès e muse galanti , che traducono la parte femminile delle due raccolte (tre volumi, pagine 1.474, e 150). In questi tre volumi vengono ovviamente sacrificati i ritratti letterari maschili, da Montaigne a Chateaubriand a Victor Hugo. Il materiale è quasi esclusivamente biografico. Così la grandezza di Sainte-Beuve scrittore e critico viene impallidita e diminuita.
Ma quale ricchezza! I tre grandi volumi rappresentano tutte le figure, le forme e le ombre della civiltà e della società femminile francese: Giovanna d’Arco, Margherita di Navarra, madre Agnese Arnauld, la Grande Mademoiselle, Mademoisselle Scudery, Madame de Sévigné: Madame de La Vallière, Madame de Maintenon; la duchessa di Borgogna, la duchessa du Maine, Madame de Pompadour, Madame du Deffand, Mademoiselle de Lespinasse: Madame Châtelet, Madame Necker, Maria Antonietta, Madame Roland, Madame de Staël, Madame Récamier, George Sand, Madame Desbordes-Valmore, per indicare soltanto i nomi più noti.
Sainte-Beuve ha un’immagine vasta e complessa di questo mondo femminile. In primo luogo, la conversazione, che, per convinzione comune, «è il più grande piacere della vita, e quasi il solo»: la grazia, la leggerezza, l’incanto, la devozione religiosa, il desiderio di piacere, la vanità, l’autorità, la passione, e l’esprit piuttosto che il cuore. I passi più intensi di bellezza sono i ritratti di Madame de Sévigné, di Madame de La Vallière, e di Madame du Deffand. Molto sopravvalutata, invece, Madame de Staël, sia come scrittrice sia come saggista.

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