Renzi, nuovo attacco al governo Letta: sbagli. Poi il faccia a faccia

by Sergio Segio | 17 Gennaio 2014 8:19

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ROMA — Un incontro a sorpresa, per cercare la tregua e chiudere il duello di ieri a scena aperta. Il segretario che non vuole «perdere la faccia» e il premier che non vuole perdere la partita del governo si sono visti alle nove di sera, dopo che Matteo Renzi, sventolando i sondaggi, aveva sferzato il premier sul «gradimento al minimo storico» di quelle che chiama «striminzite intese». Giudizi che hanno spaccato il Pd e costretto Enrico Letta a mediare, dicendosi «d’accordo sulla necessità di un nuovo inizio» e promettendo «un risultato positivo a breve». Ma le critiche al governo l’inquilino di Palazzo Chigi non le condivide e lo ha detto in una nota, ricordando come il suo incarico sia nato dopo «uno dei tempi più complessi e travagliati della nostra storia recente». Non è bastato a placare le acque, perché a stretto giro, chiudendo la sua prima Direzione nazionale da segretario, Renzi si è preso l’ultima parola strizzando l’occhio agli italiani delusi: «Non mi interessa il giudizio sui 9, 10 o 11 mesi, io ce l’ho chiaro. È quel che si sente non nei mercati internazionali, ma nei mercati rionali…». Il faccia a faccia è nato così, dopo il ruvido botta e risposta tra i duellanti e dopo che Letta, nel pomeriggio, ha disertato il «parlamentino».
All’ultimo piano del Nazareno, Renzi ha giocato dialetticamente su due livelli. Ha spazzato via le ambiguità su durata del governo e lealtà al premier, ma al tempo stesso ha randellato l’esecutivo. «O il Pd realizza le riforme o andiamo incontro a una devastante campagna elettorale con la demagogia di Berlusconi e Grillo», è l’ultima chiamata di Renzi: «Nei prossimi quattro mesi dobbiamo portare a casa dei risultati, se andiamo avanti come se niente fosse saremo spazzati via…». Tre giorni. Il tempo di parlare a quattr’occhi con Berlusconi e di chiudere sulla legge elettorale, formalizzando il passaggio in una nuova riunione della Direzione, lunedì. Renzi addebita a Letta «dieci mesi di fallimenti» e propone un «accordo alto e nobile» per dar vita a un anno costituente, in cui riscrivere sistema di voto, nuovo Senato e riforma del titolo V.
La tela del Pd è lacerata. La minoranza filo-governativa non vuole trattare con un «pregiudicato». Ma alla fine vince lui, che ai dirigenti ha chiesto un «mandato forte». Renzi lascia il Nazareno con una vittoria netta, scolpita nei numeri: 185 presenti su 204, 150 sì, nessun no e 35 astenuti. Dal tavolo della presidenza anche Gianni Cuperlo sventola la sua delega per marcare la distanza e il gesto evidenzia la divisione del partito. L’ex sfidante chiede al leader di smetterla con gli attacchi e invoca «un nuovo governo presieduto da Letta», che segni la fine del «galleggiamento» e una vera «ripartenza». Renzi invece non apre al «bis» e boccia ogni forma di «rimpastino», anche perché, affonda citando Orazio, un governo «che si basa all’80 per cento sul Pd sarebbe da rimpastare ab ovo».
La minoranza è per il doppio turno e lo rimarca con un documento, firmato da 50 parlamentari. Ma Renzi tira dritto, verso l’incontro con il Cavaliere. Ogni istante è buono e al Nazareno la massima allerta è per sabato pomeriggio. Il leader scaccia come «surreale e stravagante» la polemica sul rendez vous con l’ex premier e ribadisce la linea del «parlare con tutti ovunque». Al tempo stesso, però, avverte Berlusconi: «Va respinto il ricatto di chi dice legge elettorale sì, ma solo se si vota a maggio». E se ufficialmente non chiude nessuna strada, comincia a delineare un sistema che somiglia a uno spagnolo corretto, con premio di maggioranza. Per lui è il punto centrale e ritiene «indifferente» che il bonus venga assegnato al primo o al secondo turno. Basta che non torni più l’era dei governi paralizzati dai piccoli partiti, come accadde a Prodi con la «straordinaria macchina dell’Unione».
Fuori manifestano gli esodati, dentro si nota l’assenza di Veltroni e la presenza di D’Alema, Marini, Fioroni. Rosy Bindi non c’è, perché della Direzione non fa più parte. E così la freccia più appuntita trafigge Stefano Fassina: «Non ho visto ministri dimettersi per Berlusconi, ma per un “chi?”». E ce n’è anche per Formigoni, del quale Renzi prende a pretesto un messaggio su Twitter per dire (alla minoranza del Pd, come all’Ncd) che lui non teme, sulla legge elettorale, il voto dei franchi tiratori. «Se qualcuno riterrà di affidarsi al meccanismo della fronda e del voto segreto salterà il patto costitutivo di maggioranza…».
Monica Guerzoni

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