Quelle mutande verdi e la parabola del governatore

by Sergio Segio | 11 Gennaio 2014 7:59

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Maledette quelle mutande verdi. Potete scommettere che Roberto Cota rimpiangerà a lungo d’aver comprato, mettendoli in nota spese, quegli slip dai colori cari ai padani. Certo, aveva avuto delle grane anche prima, a partire dalle polemiche sulla Parentopoli leghista alla Regione Piemonte e la sua eccessiva devozione al Senatur.
Ma sarà quello scontrino, probabilmente, a essere ricordato come l’inizio della frana. La sentenza del Tar del Piemonte che ieri, dopo quattro anni di tormentone, lo ha azzoppato come governatore, è arrivata nella scia di una lunga serie di rovesci. Su tutti il rapporto della Finanza sui rimborsi elettorali che, consegnato alla magistratura l’11 luglio 2012, finì sui giornali qualche settimana fa. Un rapporto da cui emergevano, per citare La Stampa , molte spese non sempre, diciamo così, istituzionali. Dai «quattro chili di pasticceria per 126 euro a Torino» a «quattro pacchi di Pall Mall azzurre», dal «regalo di nozze da 380 euro “per rappresentanza”, all’assessore Michele Coppola» a scontrini per «cravatte, argenteria, un caricabatterie. Deodorante, spazzolino, Marlboro da 20. Una cornice. Una valigia. Un dvd. Cipster, taralli, M&M’s, arachidi». Fino ai più sconcertanti: «Ventidue coperti da Celestina ai Parioli, con cinque ricevute diverse nello stesso giorno. E poi, il 20 aprile 2011: nove pasti con tre scontrini, fra Roma, Torino e un bar dell’aeroporto. Totale: 25.410 euro».
Che il presidente fosse dotato del dono dell’ubiquità, come San Filippo Neri o San Pietro d’Alcántara, era infatti ignoto anche a chi lo amava per avere sconfitto i «comunisti» strappando loro la «rossa» Torino. Eppure questo dice la nota dei finanzieri che hanno messo a confronto gli scontrini con le celle telefoniche via via agganciate dai due cellulari cotiani: «Su un totale di 592 report, in 115 casi non vi è corrispondenza fra quanto segnalato dalla cella relativa, alternativamente, alle utenze 335/…. e 348/…, e l’unificazione dell’esercizio commerciale indicato sulle fatture e ricevute consuntive del consigliere Cota…» Traduzione: per almeno 115 volte il governatore non era dove furono emessi gli scontrini.
Una grana. Tanto più per il segretario regionale (eletto con uno stupefacente 93%) di un partito nel quale era entrato giovanissimo proprio perché entusiasta delle urla di battaglia «moralizzatrici» di un Senatùr che minacciava furente: «Sbatterò via tutti i dirigenti che hanno la gotta per le troppe bistecche mangiate».
Si innamorò del Carroccio, avrebbe raccontato in un’intervista a Barbara Romano, di Libero , nel 1987. Quando aveva 19 anni: «Sono il più vecchio della generazione di quelli che hanno sempre votato solo Lega». Entrò nel partito tre anni più tardi nel sottoscala di un bar: «Il bar “Otello” di Novara. Andai lì con il mio amico Giorgio Ferrari e l’Otello ci sussurrò: “Sì sì, per la Lega. Ma andate nel sottoscala, sennò perdo i clienti”. Da quel giorno iniziai a mangiare pane e Lega». L’anno successivo conobbe l’Umberto: «La prima volta che venne a Novara, nel ’91. Io facevo la gavetta. Andammo con altri della Lega ad aspettarlo. Lui ci caricò tutti sulla sua Citroën rossa, e noi, dai sedili dietro, gli indicavamo la strada».
Prima e ultima volta, si capisce. Da quel momento la strada gliel’avrebbe indicata il Senatur, del quale sarebbe diventato il più fedele dei fedelissimi. Così adorante da descrivere il «suo» leader come uno statista più grande di Churchill: «Tutto ciò che Bossi ha detto e gli scenari che ha tracciato si sono rivelati sempre lucidi e precisi».
Tanto era cotto del partito e del leader che quasi non si accorse di Rosanna: «Io prendevo la tesi un po’ sotto gamba perché lei era un’assistente alle prime armi e in me era già esplosa la passione per la Lega. Quindi cercavo di sfangarla. Finché un giorno lei non mi richiamò all’ordine: “Guardi che, se lei non sistema la sua tesi, non l’ammettiamo alla prossima sessione di laurea”». Lui rispose con una pianta e un biglietto: «All’assistente più simpatica». Si sposarono dopo un fidanzamento interminabile: nove anni. Lei fa il giudice. «C’è rimasta male la sua consorte quando Berlusconi ha detto: “L’unico difetto di Cota è di avere una moglie magistrato”?», gli chiese la Romano. Risposta: «Ma ha aggiunto che è una persona per bene». Ah, ecco…
Consigliere comunale poi segretario provinciale e infine regionale («Bossi mi chiamava tutte le notti per darmi suggerimenti», ha raccontato a Vittorio Zincone, «Ogni tanto la mattina mi svegliavo e pensavo d’aver sognato. Non ricordavo che cosa mi aveva detto. Poi presi l’abitudine di andare a letto tenendo sul comodino un blocco per gli appunti»), sottosegretario in un paio di governi e poi capogruppo del Carroccio alla Camera, rischiò un ruzzolone quando, candidato a governatore, inciampò a «Un giorno da pecora» dove non riuscì a ricordarsi quali fossero tutti i confini del Piemonte e sbandò pericolosamente alla domanda sulla vetta più alta: «Il Cervino». Precipitosa retromarcia: «No, scusate, il Monte Rosa».
Rimasto sempre indissolubilmente legato al Senatùr, si sbilanciò amorevole in elogi spropositati perfino sull’erede designato, il Trota: «Renzo è un talento politico. Per ora si sta occupando, bene, dello sport». Una devozione totale. Al punto che, eletto governatore, si fece beccare in una foto mentre reggeva il posacenere al Capo. Massimo Gramellini lo fulminò: «Quando era soltanto un leghista, Roberto Cota poteva reggere il posacenere di Bossi o sostituirsi a esso con mani d’amianto. Poteva persino sventagliare la nuca del suo signore come uno schiavo nubiano». Ma ora no: «Per quanto possa sembrargli strano, Cota incarna un’istituzione. Quindi via le camicie, le cravatte, i fazzolettini verdi. E i posacenere, per favore, sul tavolino».
Poi, ha cominciato ad andargli tutto storto: la battaglia giudiziaria con la Bresso, il crollo del Senatùr e lo sfascio del «Cerchio magico», le accuse alla Lega d’aver riempito la Regione di parenti, le polemiche sulla scelta di vivere a Milano alle quali rispose tirando in ballo la necessità di non spostare la figlioletta dato che la moglie a Milano vive, le ironie sulla sua confessione di non conoscere i dialetti piemontesi, il fallimento del disegno di un «asse padano» con Maroni e Zaia…
A tutto però avrebbe potuto sopravvivere, forse. Non alla notizia di quei boxer verde-kiwi, modello «Chappytrunk», taglia L, comprati a Boston il 6 agosto 2011 per 40 euro messi in nota spese. Dice lui che si trattò solo di un errore della segretaria montato ad arte da «feticisti della penna». Ma si sa, più che un attacco politico o perfino una sentenza può uccidere il ridicolo…
Gian Antonio Stella

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