Quel tentativo di mediazione a Palazzo Chigi
Il patto che serve al sindaco e a Letta «Verdini avrà un dispiacere quando si renderà conto che l’intesa sulla legge elettorale sarà stata frutto di un accordo avviato prima nella maggioranza». La scommessa risale a una settimana fa, ma ancora oggi Letta non intende ritirarla: d’altronde ha puntato su se stesso, se perdesse sarebbe la fine del governo. E Renzi sa di non poter giocare contro il premier: gli serve «il triangolo» per portare a casa il risultato, e serve «anche» Berlusconi.
La trattativa si muove attorno a questo schema, da cui dipendono il varo del nuovo sistema di voto e la sopravvivenza dell’esecutivo. Perché è chiaro fin dall’inizio che le due questioni stanno insieme e sarebbero quindi chiare le responsabilità di far fallire il disegno, se qualcuno pensasse di slegarle. «Tutto si tiene, Matteo, a te tocca scegliere», ha detto ieri il ministro Lupi a Renzi. E non è un caso se in serata, mentre il segretario del Pd mostrava il suo piglio decisionista in tv, era in corso la mediazione nella maggioranza, con il ministro Franceschini a far da cireneo. Non sono riti da prima Repubblica, è la fatica della politica, dove i nodi non si tagliano ma si sciolgono.
È vero, il capo dei Democratici ha impresso un ritmo che ha stordito i suoi interlocutori, ma anche un pilota di Formula uno che si approssima alla curva deve impostare la staccata. L’abilità sta nel frenare un metro dopo gli altri, e ancora giovedì notte — durante il vertice a Palazzo Chigi con Letta e Alfano — Renzi pigiava sull’acceleratore, ribadendo il suo no alle preferenze, incurante delle obiezioni del leader del Nuovo centrodestra che gli ricordava di aver sponsorizzato lui il modello del sindaco d’Italia: «Eppoi, scusa, il doppio turno non è una mia preferenza ma una concessione fatta al tuo partito».
Per tutto il tempo il premier si è mosso da «facilitatore» nel tentativo di arrivare a un compromesso. Niente da fare, siccome per Renzi non era ancora giunto il momento di impostare la staccata. E allora nessuno ha sollevato il piede dal pedale. Alfano è salito al Quirinale per dire a Napolitano ciò che il capo dello Stato prevedeva, e cioè che dinnanzi «all’apparente volontà» del segretario democratico di sostenere il governo «noi siamo invece determinati nel volerlo rilanciare, a patto che sulla legge elettorale ci sia una condivisione tra le forze della maggioranza».
Renzi potrà pensare che Ncd stia bluffando, che non aprirà mai la crisi di governo, il punto è che anche nel suo partito la minoranza bersaniana non è intenzionata a frenare. La rivolta è ormai pubblica, con tanto di battaglia «a viso aperto» in Parlamento se il segretario proponesse il modello spagnolo, brandito da Renzi non solo con l’obiettivo di fare un repulisti nelle candidature con i listini bloccati (che ricordano il Porcellum), ma anche per arginare un’eventuale scissione: perché il sistema iberico taglierebbe le gambe ai «partitini», anche a quelli di sinistra. E allora, se è una questione di vita o di morte, vuol dire che la rottura nel Pd va messa nel conto, e in quel caso non ci sarebbero i voti alla Camera per approvare il provvedimento.
Ecco perché il «triangolo» è necessario: serve a Letta per restare a Palazzo Chigi e serve a Renzi per intestarsi la riforma. L’idea di un accordo nella maggioranza sembrava ieri sera prender forma: un meccanismo a turno unico proporzionale che preveda la presentazione di liste in grado di coalizzarsi, un premio di maggioranza del 15% al vincitore e uno sbarramento tra il 4-5% su base nazionale. Ncd è disposta a lavorare attorno a questo compromesso, che escluderebbe però le preferenze invise a Renzi. Solo che il «triangolo» non si chiuderebbe senza Berlusconi, che in prossimità della curva attende di incontrare il leader del Pd e intanto lo incita a non frenare, a insistere sul modello spagnolo. Lo ha fatto di persona il Cavaliere, travestito da sirena: «Caro Matteo, quando ti capiterà più di batterti alle elezioni con un vecchietto, per giunta con le mani legate dalla giustizia?».
Se c’è qualcuno per cui la politica ha cambiato verso è proprio l’ex premier. Altro che «agibilità»: ciò che non ha ottenuto da Letta lo ha avuto, e con gli interessi, dal sindaco di Firenze. Per siglare l’intesa, Berlusconi ha messo la sordina alla disputa interna a Forza Italia, così da non aver problemi e tenere compatti i suoi gruppi parlamentari. Vede l’obiettivo, la sua rilegittimazione, e non c’è dubbio che resti ancora determinante sebbene fuori dal Palazzo. Colpisce però come abbia glissato quando gli hanno rammentato che fu proprio Renzi a spingere perché il Pd accelerasse il voto sulla sua decadenza da senatore, in modo da non avere ostacoli nella corsa alle primarie per la segreteria democratica…
Ma c’è un motivo: in vista della staccata l’unico a non aver problemi di staccata è proprio Berlusconi, a cui andrebbe bene anche la legge «scritta» dalla Consulta. I suoi giurano che il «protocollo d’intesa» con il leader del Pd sia già pronto per la firma, «e certo — commentava ieri sera il Cavaliere — se proprio ora Renzi si sottraesse al patto, si rivelerebbe perdente…».
Francesco Verderami
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