Nuovo raid aereo israeliano contro la Siria
I siti israeliani, e anche tanti di quelli arabi, ieri tenevano bassa la notizia del nuovo raid aereo che Israele ha lanciato domenica notte contro una base militare nei pressi della città siriana di Latakiya. Un nuovo attacco militare contro un altro Paese sovrano che non fa più notizia. Fonti dell’opposizione siriana e della sicurezza libanese hanno riferito che gli aerei israeliani hanno violato lo spazio aereo del Paese dei Cedri, sorvolato la Valle della Bekaa e infine colpito la base a Latakiya. Altri parlano di un attacco dal mare che avrebbe preso di mira depositi con missili antiaerei S 300 di fabbricazione russa. Da Tel Aviv non ci sono state conferme, Damasco tace. Proprio come lo scorso anno quando Israele ha colpito più volte in Siria presunti “convogli di armi” in apparenza destinati al movimento sciita libanese Hezbollah. Venerdì un alto funzionario dell’intelligence israeliana, coperto dall’anomimato, aveva fatto sapere che lo Stato ebraico potrebbe riconsiderare la sua presunta “posizione di neutralità” nella guerra civile siriana di fronte alla crescente presenza di jihadisti e qaedisti in Siria. Estremisti che «oggi combattono contro Assad e che domani useranno le loro armi contro Israele» aveva detto, lasciando intendere che se sino ad oggi è stato colpito l’esercito siriano, in futuro le forze armate israeliane potrebbero prendere di mira i jihadisti a ridosso delle linee di confine. In realtà il governo del premier Netanyahu non è “neutrale” e si augura la caduta di Bashar Assad e la conseguente fine dell’alleanza tra la Siria e l’Iran.
In Israele di tutto questo si è parlato pochissimo ieri. A dominare la scena sono state le roventi polemiche a destra innescate da Netanyahu che dopo essersi dichiarato al Forum Economico di Davos a favore della soluzione dei “due Stati” ha successivamente spiegato di non aver intenzione di evacuare anche uno solo degli oltre 150 insediamenti colonici ebraici costruiti da Israele nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est dopo il 1967 (in violazione del diritto internazionale). Ha poi aggiunto che, nel quadro di un accordo con i palestinesi, diversi insediamenti e quindi migliaia di coloni si ritroveranno sotto l’autorità palestinese. Netanyahu intendeva mettere in “cattiva luce”, di fronte il presidente palestinese Abu Mazen e altri dirigenti dell’Anp che hanno già detto che nel futuro Stato di Palestina (ammesso che ne nasca uno sovrano) non ci sarà spazio per le colonie israeliane perchè sono la massima espressione dell’occupazione cominciata 46 anni fa e perchè illegali. L’analista Shimon Shiffer, del quotidiano Yediot Ahronot spiega le esterazioni di Netanyahu come un deliberato tentativo di provocare una reazione ostile da parte dei palestinesi, dipingendoli come nemici della pace. «Sfida la parte palestinese sapendo che (sull’esistenza delle colonie, ndr) non può che rispondere in modo negativo».
Le aspettative di Netanyahu sono andate deluse, i palestinesi non hanno fatto una piega e le reazioni occidentali sono state sino a questo momento impalpabili. «Il problema sono solo le colonie, se alcune migliaia di (coloni) ebrei vorranno rimanere come cittadini palestinesi nel nostro futuro Stato, potranno farlo. Le colonie no, perchè sono state costruite illegalmente», ha commentato l’ex ministro dell’Anp Ashraf al-Ajrami.
La lite invece è scoppiata in famiglia dove la destra più radicale, dentro e fuori il governo, ha accusato il premier di voler lasciare i coloni «dietro le linee nemiche». «Non si può abbandonare gli ebrei nelle mani palestinesi», ha protestato il vice ministro degli esteri Zeev Elkin, del Likud, lo stesso partito di Netanyahu. Un altro vice ministro, Dani Danon, ha detto che l’idea di insediamenti ebraici non più sotto la sovranità israeliana è «una aberrazione politica». Il più arrabbiato di tutti è apparso il ministro dell’economia Naftali Bennett, leader del partito ultranazionalista “Focolare ebraico”, che ha lanciato accuse durissime al primo ministro. L’ufficio di Netanyahu ha replicato che ministri e vice ministri che non sono d’accordo con il premier sono liberi di lasciare il governo.
E’ una tempesta in un bicchiere d’acqua, volta a dare all’esterno (Usa e Europa) l’immagine di un Netanyahu “moderato”, limitato nelle sue decisioni al tavolo delle trattative da ministri e compagni di partito “estremisti”. Contano i fatti che parlano da soli, l’occupazione del popolo palestinese non cessa. Ieri un contadino di Gaza è stato ferito gravemente da spari dell’esercito israeliano solo perchè lavorava nel proprio terreno a Deir al-Balah, vicino ai reticolati di confine.
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