Napolitano chiede un’intesa ampia ma non contro la maggioranza

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Sono in tanti a giurare che a questo punto, se Giorgio Napolitano benedice l’intesa siglata sabato tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, allora è fatta. In quel caso, insomma, la svolta sarebbe compiuta, il governo salvo e pronto a rilanciarsi per un po’ di tempo (almeno un anno e mezzo), e l’Italia avrebbe finalmente una nuova, e non indecente, legge elettorale, insieme a un pacchetto di altre indispensabili e connesse riforme. Ecco quel che parecchi scommettono a Montecitorio e dintorni, dove già si evoca l’alba della Terza Repubblica e si ragiona dunque con l’euforia semplificatoria che sempre affiora quando la storia sembra superare una fase di limite e si rimette in movimento. Ma è davvero così? Sul serio ormai basta solo il placet presidenziale per far cambiare strada al Paese?
Magari fosse così semplice, replicano al Quirinale, spiegando che, sì, c’è un fatto nuovo molto importante, ma che il capo dello Stato non vuole e non deve benedire o maledire niente e nessuno. Non avendo ancora un’idea precisa del punto di caduta dell’iniziativa presa dal segretario del Partito democratico, rimane pure lui — come tutti — in attesa di conoscere l’esito dei passi che si stanno perfezionando in questi momenti. Di verificare cioè il frutto degli incontri che Renzi avrà con i dirigenti del Nuovo centrodestra e di Scelta civica, ma anche del colloquio di ieri a Parma con Pierluigi Bersani. Colloquio che, oltre a testimoniare una doverosa solidarietà umana, in realtà non è bastato ad assorbire la fronda montante in casa del Pd.
Poche ore e già stasera, dopo che Renzi avrà presentato e fatto votare la propria proposta alla direzione del partito (proposta che di sicuro non sarà un articolato di legge, ma che dovrà in ogni caso essere abbastanza dettagliata e precisa), Napolitano avrà a disposizione gli elementi necessari per esprimere un giudizio su dove possa sfociare la «piena sintonia» con cui si è chiuso il faccia a faccia tra il leader democrat e il Cavaliere. La trattativa è aperta perché, si sa, il patto dell’inedito tandem è stato per il momento siglato su linee abbastanza generali. E a questo punto toccherà a Denis Verdini, plenipotenziario di Berlusconi e da qualche settimana parte attiva nel negoziato con i vertici del Nazareno, perfezionarne le concrete modalità con i diversi interlocutori.
Certo, per superare quello che il presidente chiama «l’amletismo delle soluzioni» su cui la politica da anni si blocca quando mette in agenda la questione del sistema elettorale, bisognerà tenere conto anche dei punti di vista della formazione guidata da Angelino Alfano e di quanto vogliono i reduci del partito montiano. Uno snodo critico che si potrebbe sintetizzare in una formula raccomandata caldamente dal capo dello Stato a chi ha bussato alla sua porta nei giorni scorsi: bisogna allargare le intese fuori dalla maggioranza, ma non contro la maggioranza. Per lui non basta un accordo a due, ma serve un accordo da estendere anche a tutti gli attori della maggioranza. In modo da essere garantiti che sull’intera partita ci sia un ampio e sicuro consenso parlamentare. E nel contempo evitare la rincorsa ai reciproci sospetti e il vortice di polemiche che, nell’eterno e stucchevole crescendo di veti e strappi, sarebbero destinati a perpetuare l’ennesima (e oggi intollerabile) paralisi.
Napolitano aveva suggerito questo percorso di larga collaborazione fin da prima di Natale, nel messaggio ai rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile convocati per gli auguri al Quirinale. Aveva rivolto un esplicito «appello al partito che il 2 ottobre si è distaccato dalla maggioranza originaria guidata da Enrico Letta», ossia Forza Italia, affinché «quella rottura non comporti l’abbandono del disegno di riforme costituzionali di cui erano state poste le premesse tra giugno e settembre».
Oggi a quanto pare ci siamo e l’obiettivo, assicura il Renzi «costituente», è «a portata di mano», senza peraltro che nessuno possa prefigurare che la politica cada nella tentazione già registrata in molti casi, nella storia repubblicana: varate le nuove regole di voto si va subito alle urne. Stavolta, no. Grazie all’impegno congiunto a riformare, assieme alla legge elettorale, il Senato e a revisionare il Titolo V della Carta (ciò che richiede almeno un anno di lavoro), non potrebbe esserci alcun precipitoso scioglimento delle Camere.
Un motivo di sollievo in più, per il capo dello Stato. Il quale, e qui si torna al tema della sua pretesa «benedizione» alla partita che impegna Renzi, in questo giro di boa è un’autorità disarmata. Infatti, trovandosi di fronte a una legge d’iniziativa parlamentare, non ha nemmeno quel tanto di vaglio formale e iniziale che rientra tra le sue prerogative quando si tratta di autorizzare la presentazione al Parlamento di decreti-legge o di disegni di legge d’iniziativa governativa. In breve: non ha alcun titolo per intervenire nel merito se non — ciò che scatta in questa particolare circostanza — per verificare la corrispondenza di una legge eventualmente approvata dalle Assemblee con i criteri della sentenza con cui la Corte costituzionale ha bocciato il Porcellum.
Marzio Breda


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