Modelli e debito, la doppia partita Fiat-Chrysler
MILANO — Esercizi di prospettiva. Sul piano industriale da un lato, sulle mosse finanziarie dall’altro. Esercizi che, smaltita l’euforia da «botto», terranno sempre più impegnati i mercati. Senza che però cambi la tendenza di fondo: confermata la «benedizione» all’accordo che toglie di mezzo i dubbi su tempi e costi della fusione Fiat-Chrysler e, soprattutto, permette a Sergio Marchionne di rispettare con un ritardo minimo l’agenda promessa (anche per la quotazione del nuovo gruppo a Wall Street, probabilmente entro l’anno). Così, è vero, il titolo del Lingotto esce da Piazza Affari con un calo del 2,3%. Ma dopo il +16% con cui gli investitori avevano festeggiato quota 100% ad Auburn Hills, i realizzi erano messi in conto. E l’entità della perdita non è tale da mettere in discussione il giudizio sull’operazione. La promozione, fin qui, rimane. Come la valutazione delle agenzie di rating.
C’era chi, anche tra primarie banche d’investimento, per via del nodo-debito temeva o ventilava un preannuncio di nuovo declassamento. Smentito, finora. L’altro ieri era stata Fitch a negare «impatti immediati» e a confermare il suo Bb — con outlook negativo (ma «la previsione è che Fiat sia in grado di rifinanziare il debito Chrysler senza restrizioni entro il 2016»). Ieri è toccato a Moody’s: si è espressa sul «voto» di Chrysler, l’ha mantenuto a B1 con outlook stabile grazie al fatto che la fusione «faciliterà l’ulteriore integrazione delle strategie finanziarie e operative», ha lasciato intravvedere un possibile rialzo se Fiat «dimostrerà progressi nell’affrontare le sfide in Europa e in Brasile» e Chrysler continuerà a rinnovarsi. Per inciso: sempre ieri, dal Brasile arrivava la conferma della leadership Fiat ma anche la notizia del primo calo di mercato in dieci anni (—0,91%), e dagli Usa l’annuncio della miglior performance Chrysler dal 2007, con vendite 2013 su del 9%.
Detto ciò, se il «giorno dopo» il gradimento dei mercati resta, resta comunque anche una serie di interrogativi cui soltanto Marchionne potrà dare risposta. Nel caso del business plan ogni sollecitazione sarà inutile. Confermerà ogni volta che gli investimenti avranno un’accelerata, ribadirà il ruolo centrale delle fabbriche italiane e la loro «rivisitazione» in chiave export come unica via per garantirne la sostenibilità. Ma ci lavorerà fino all’ultimo momento e sino ad allora — aprile, non a caso insieme alla prima trimestrale 2014 — non una virgola uscirà dai suoi uffici. Ci si eserciterà inevitabilmente sui miliardi che metterà sul piatto e su chi costruirà cosa, si potrà dare per sicuro che ogni nuova Alfa (il marchio su cui si gioca buona parte della «sfida premium», base della strategia) si farà da noi e non emigrerà mai negli Usa. Ma di certo, per quel che riguarda l’Italia, c’è solo che verranno definiti i modelli da produrre a Cassino, e con ciò si chiuderà un primo cerchio di investimenti nazionali, o che Mirafiori proseguirà sul «polo del lusso» integrato con Grugliasco. Poco altro.
Probabile che i sindacati chiedano un «punto» il 13 e 14 gennaio, quando vedranno i vertici delle relazioni industriali di Fiat e Cnh per il rinnovo del contratto (ancora non definita, invece, la data dell’incontro con la Fiom, che non siederà al tavolo comune fino a che i segnali di distensione non si trasformeranno in riconoscimento degli accordi di gruppo). Non avranno da lì le risposte che cercano. Se qualcosa arriverà, sarà dal Salone di Detroit, direttamente da Marchionne, in quegli stessi due giorni. Inutile però attendersi qualcosa di diverso dalle solite linee guida. Se qualche dettaglio post accordo in più lo darà, potrà semmai riguardare gli aspetti finanziari. A partire dal capitolo «aumento di capitale» (previa emissione di un prestito convertibile, come scriveva il Financial Times ?): ora non è alle viste ma Marchionne per primo, pochi mesi fa, l’aveva definito «necessario nel medio termine». Sarebbe una logica via per la quotazione Fiat-Chrysler a Wall Street.
Raffaella Polato
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