by Sergio Segio | 6 Gennaio 2014 9:19
Scandaloso, per la sinistra. Il clamore delle polemiche sottolinea quanto la battuta di Renzi sia stata inopportuna, oltre che infelice. Visto che, in un momento tanto significativo, ha spostato l’attenzione in direzione indesiderata, per il segretario.
Tuttavia, molte critiche appaiono fuori luogo. Fuori centro. Mostrano la difficoltà di comprendere quanto è avvenuto e sta avvenendo, nella politica italiana. In particolare, il (pre) giudizio nei confronti di Renzi, di essere un «berluschino», un nuovo, piccolo Berlusconi. Usato, da (centro) sinistra, come un’accusa. Un insulto. Più che un’accusa, è la conferma della difficoltà, nella sinistra, di capire cosa sia successo negli ultimi vent’anni. Renzi non è un leader berlusconiano, ma, semmai, postberlusconiano. Come i tempi in cui viviamo. Il post-berlusconismo. Un’epoca che risente ancora dei modelli e dei valori interpretati da Berlusconi. Anche se oggi sono resi inattuali dalla crisi. Tuttavia, l’esperienza di Berlusconi ha impresso sulla politica un segno indelebile. Ha imposto la comunicazione sull’organizzazione, i media sulla partecipazione. Ha portato all’estremo la personalizzazione, attraverso l’invenzione del suo «partito personale». Insomma, ha imposto la «politica come marketing». Un modello, peraltro, già affermatosi altrove, in Europa e negli Usa. Anche se Berlusconi ne ha accentuato i caratteri. Perché ha potuto sfruttare le sue risorse mediatiche e imprenditoriali. Senza vincoli — istituzionali e sociali. Vent’anni di berlusconismo, peraltro, non sono passati invano. Tutti i principali soggetti politici ne hanno seguito e imitato il modello. Si sono mediatizzati e personalizzati, seguendo le logiche della politica come marketing. Ovviamente, senza gli stessi esiti e gli stessi risultati di Berlusconi. A sinistra, in particolare, il Pd è stato frenato dalla sua storia, dalle sue tradizioni, dalle sue radici, piantate nella Prima Repubblica. E ciò gli ha permesso di evitare la fine
degli altri imitatori del modello berlusconiano. Da Di Pietro a Fini a Monti. Le cui biografie politiche personali si sono concluse insieme ai partiti. Tuttavia, il Pd è stato condizionato dal suo passato. Chiuso nel recinto delle zone rosse. Incapace di esprimere una leadership condivisa, perché storicamente diviso in correnti e personalismi (come hanno mostrato Mauro Calise e Marco Damilano, nei loro saggi pubblicati da Laterza). Fino all’esito delle elezioni politiche del 2013. Quando il Pd non ha vinto, anche se Berlusconi ha perso. Quando la domanda di cambiamento si è tradotta nel successo del M5S, che ha raccolto il voto «contro»: Berlusconi, Monti. Ma anche, e soprattutto, «contro» il Pd e la Sinistra alternativa. Da lì è partito Renzi. Un leader post-berlusconiano in un Paese post-berlusconiano. Dove Berlusconi è «imprigionato» in casa. Ma conta ancora, perché siamo tutti post-berlusconiani, cresciuti o invecchiati in una società educata dai suoi media. E influenzata dai suoi valori. Che Berlusconi non ha inventato. Ma ha riprodotto e rilanciato, attingendo al senso comune. In un Paese dove la sinistra è stata sempre minoranza e l’anticomunismo un sentimento maggioritario. Renzi, per questo, a mio avviso, non intende riformare, ma andare oltre il Pd dei «sinistrati » (per echeggiare Edmondo Berselli). Oltre l’eredità dei partiti di massa. Gli interessa costruire il Post-Pd, modellato intorno al Capo, mentre la Sinistra (e ancor più il Centro) è sempre stata un’area affollata da molti capi, in reciproca contesa. Da ciò il metodo-slogan della rottamazione. Rozzo ma efficace, nel descrivere l’intenzione di liberarsi del passato, sottolineata dalla formazione di una segreteria «giovane », per marcare il salto di generazione politica.
La riunione della segreteria di sabato, in fondo, riproduce i riti e la simbologia della rottura con il (e della rottamazione del) passato. La scelta della sede, in primo luogo. Firenze. La città di cui è sindaco Renzi. Un passaggio dal significato geopolitico chiaro: da Roma a Firenze. La capitale politica, cioè, si sposta nella città del segretario del post-Pd. Per marcare la distanza da Roma, simbolo del potere politico, contro cui è montata la sfiducia di gran parte dei cittadini. Ma la scelta di Firenze sottolinea anche la distanza dal governo centrale, guidato da Letta. Dalle larghe intese, ormai ridotte all’asse fra il Pd e quel che resta degli altri (ex-Pdl e centristi in ordine sparso). Riunire la segreteria del Pd a Firenze, dettare le priorità in merito alla legge elettorale, alle questioni bioetiche e del lavoro, significa spostare l’asse geopolitico del governo. Spingere Roma alla periferia. Ancora: riunire la segreteria a Firenze, per Renzi, significa marcare una prospettiva simbolica e progettuale. A favore del Sindaco d’Italia. Lontano dai Palazzi del Potere e dei Privilegi. Più vicino alla «gente comune ». Un leader (e un partito) che si muove in bici, lavora senza staccare, dalla mattina presto fino alla sera. Senza pause, giusto il tempo per un panino (anche se griffato).
Il post-Pd interpretato da Renzi, in questa prima uscita, è, dunque, un partito post- berlusconiano, lontano dall’eredità del passato — ma anche dal presente. Perché il Pd del passato e del presente è incapace di vincere. Il Post-Pd immaginato da Renzi è un soggetto politico modellato sulla persona del leader. Renziano, appunto. Il Partito del Capo (titolo di un recente saggio di Fabio Bordignon pubblicato da Maggioli). È impensabile che possa procedere senza fratture. Con un gruppo dirigente divenuto, in gran parte, renziano per opportunità, più che per convinzione. E senza strappi con il governo di Roma. Visto che il vero governo si è trasferito a Firenze.
Da ciò «il» problema. Se sia possibile costruire un soggetto politico «su basi personali », rinunciando all’insediamento organizzativo e territoriale, oltre che alla tradizione ideologica del Pd. Ma senza disporre delle risorse mediali ed economiche, «su basi personali». Se sia possibile costruire un soggetto post-berlusconiano senza essere Berlusconi.
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