Marchionne e il piano Detroit Dal salvataggio alla fusione

by Sergio Segio | 2 Gennaio 2014 9:23

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Chiaro che era tutto pronto da più di qualche ora, che mancavano solo i dettagli formali. Ma resta un ottimo modo di inaugurare il 2014, l’accordo di ieri con Bob King e gli altri uomini di Veba-Uaw. E di mettere, con la fusione Fiat-Chrysler ormai dietro l’angolo, un sigillo molto più che simbolico sul suo (primo?) decennale al Lingotto. Chiudendo un cerchio – uno dei tanti, sicuramente il più importante e altrettanto certamente non l’ultimo – aperto proprio così: sparigliando.
Era il 20 gennaio 2009. L’Occidente era già precipitato in quella che si sarebbe rivelata la più lunga e devastante recessione mai vissuta dal 1929 (e forse neppure allora). Sotto choc, prima e più di altri: il mondo dell’auto. Teste che saltavano, fabbriche che chiudevano, bilanci che affondavano. Nessuno che sembrasse sapere cosa fare. Neanche Marchionne, certo, per molti aspetti: non è che la Grande Crisi Globale abbia risparmiato la Fiat. Al contrario. L’azienda a un soffio dal fallimento che aveva preso in mano il primo giugno 2004, insieme a Luca Cordero di Montezemolo e a John Elkann in training da presidente, si era a gran velocità trasformata in una case history di assoluto successo. Però a quel punto, 2008-2009, comunque rischiava. Grosso. Macinava utili e si era rafforzata, sì. Ma non abbastanza. Era ancora troppo piccola, troppo europea, troppo concentrata qui e sulle fasce basse di mercato per poter reggere gli urti. Un secondo spettro fallimento, al Lingotto, lo temevano.
C’era un’unica possibilità. Facile, a rileggerla dopo. Ma quel 20 gennaio di cinque anni fa, quando Fiat annuncia di aver raggiunto un accordo con Chrysler e con il fondo Cerberus – l’azionista dell’epoca, arrivato dopo la disastrosa esperienza non di un gruppo qualsiasi: di Daimler – l’effetto è quello di una bomba. Soprattutto tra i big dell’auto. Quelli che, all’inizio, Marchionne lo guardavano un po’ dall’alto in basso, ora perdono definitivamente lo snobismo di chiamarlo «marziano». Loro dalla crisi sono storditi. Lui ci vede un’opportunità. Agli altri l’auto americana, che in quei mesi costringe la patria del capitalismo alla «bestemmia» dei salvataggi di Stato, pare un suicidio. A lui sembra un affare. Rischioso. Azzardato. Da fatica bestiale. Ma fattibile. E più ancora: il solo argine, la sola scommessa che Fiat possa innalzare per tenere la tempesta, intanto, e soprattutto per preparare la nave alla velocità e alla «stazza» che saranno richieste quando sarà passata.
Non lo è ancora. Non del tutto. Però è adesso il momento di mettere la macchina avanti tutta. Con la fusione, Fiat-Chrysler avranno tra l’altro l’enorme vantaggio della «cassa» in comune. E la liquidità di Auburn Hills, salvata cinque anni fa dal Lingotto, del Lingotto salverà ora qualcos’altro oltre ai bilanci (come avviene stabilmente da un paio d’anni): Marchionne e l’azionista-presidente Elkann hanno ogni intenzione di mantenere la promessa di rafforzare «negli anni e nei mesi a venire» gli investimenti in Italia – l’hanno ribadita due settimane fa nella lettera di auguri ai dipendenti – ma sarà in buona parte grazie all’asse americano del gruppo. Multinazionale sotto ogni profilo. Compreso quello della quotazione: Wall Street arriverà. Senza debiti con nessuno, neppure di là dall’oceano. E’ vero, senza i maxi-prestiti della Casa Bianca il Lingotto non avrebbe mai potuto sbarcare a Detroit. Però è stato Barack Obama, che il «sì» a Torino l’aveva dato in mondovisione citando «lo straordinario turnaround del gruppo italiano» e che sul capitale General Motors ha lasciato qualche miliardo di dollari, a ricordare prima di Natale che ogni centesimo (e salatissimi interessi) «è stato ripagato in largo anticipo».
Quel primo cerchio ora si chiude. Fiat e Chrysler (il 100% della quale è costato alla fine alle casse torinesi solo 3,7 miliardi di dollari) sono già un’unica entità. Che cosa ne guadagna l’Italia? Per esempio, le Jeep che tra pochi mesi usciranno da Melfi. Per cominciare.
Raffaella Polato

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