L’omicidio che diede il via ai moti di Londra giudicato legale da una corte inglese

by Sergio Segio | 9 Gennaio 2014 9:43

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LONDRA — «Se non c’è giustizia non c’è pace, la vita di un giovane nero non vale proprio nulla», urla Carole Duggan contro la giuria di sette donne e tre uomini che ha appena emesso il verdetto: il 4 agosto del 2011 la polizia uccise Mark Duggan, il nipote di Carole, ma fu un’esecuzione «legale».
Tira aria pesante fuori dalla Royal Court. E tira aria pesante nella zona di Tottenham dove Mark Duggan abitava e dove rimase fulminato. Non è una sentenza ordinaria quella che viene pronunciata. Perché il nome del ventinovenne padre di sei bambini, una vita tumultuosa piena di espedienti e segnata da contatti con le gang di quartiere, è associato alle rivolte che mandarono a ferro e fuoco per due giorni le periferie londinesi. La scintilla che provocò i «riots» fu proprio la morte di Mark Duggan.
Scotland Yard lo pedinava. Lui era andato da un amico, aveva ritirato una pistola chiusa in una scatola e si era infilato su un taxi. Agli agenti era arrivato l’ordine via radio: adesso prendetelo. Che cosa accadde realmente? Ecco il punto al giudizio del tribunale: occorre stabilire se Mark Duggan era armato, se rispose all’alt uscendo dal taxi con la pistola in mano, se la puntò verso Scotland Yard. L’inchiesta è stata chiara, cento testimoni hanno ricostruito quei terribili momenti. E la giuria, alla quale sono state poste cinque domande, decide. Mark Duggan ha l’arma con sé nel taxi. Però non l’ha in mano quando esce dalla vettura. L’aveva prima gettata in un prato. Gli sparano lo stesso. I poliziotti, a partire da colui che esplode il colpo fatale, sostengono per legittima difesa. La famiglia Duggan parla di esecuzione. La giuria pur rilevando e confermando che Mark Duggan nel momento in cui gli sparano è disarmato valuta comunque l’omicidio come un atto legittimo. E’ possibile ammazzare un uomo che è in stato di fermo ma non impugna l’arma? Otto giurati su due dicono che, in ogni caso, è un’azione legale quella compiuta da Scotland Yard. I familiari inveiscono nella Royal Court. Le reazioni della politica sono preoccupate. Il sindaco Boris Johnson si destreggia fra la difesa della polizia e la solidarietà ai genitori di Mark Duggan che piangono e promettono di «combattere per avere giustizia». Si teme, come tre anni fa, l’effetto domino.
La sera del 4 agosto 2011 davanti al commissariato di Tottenham si radunò una folla di amici di Mark Duggan. Protestavano. E partirono gli scontri nelle aree a Nord del Tamigi. Poi estesi in diversi punti della città. Assalti, incendi, saccheggi. La morte di Mark Duggan è l’immagine di una Londra che fa i conti con i suoi problemi sociali: la violenza nelle periferie, l’incapacità di contrastare le gang giovanili, la precarietà degli equilibri fra le diverse comunità etniche ma anche l’insofferenza della gente comune. Fra le migliaia di arrestati e poi processati non ci sono solo professionisti della criminalità o ragazzi e ragazze emarginati. I negozi e i grandi magazzini sono presi di mira da studenti, da disoccupati, da lavoratori. Una rivolta che fa esplodere mille rancori, uno diverso dall’altro. I provocatori organizzati si danno appuntamento coi telefonini. Accendono la miccia e scappano. Chi passa ne approfitta, a suo modo. Ma il punto di partenza dei «riots» è la morte, l’omicidio, di Mark Duggan. Tutto nasce da lì. Era un bambino timido, nato a Tottenham. Divenne un adolescente problematico, un uomo al confine con l’illegalità. Lo tenevano sotto controllo perché per la polizia era diventato «membro di una banda che traffica droga» e «perché già sorpreso a sparare». Però quella sera, il 4 agosto, scese dal taxi senza pistola. Ma si trattò di un «omicidio legittimo». A Tottenham, dopo il verdetto, la polizia è in allerta. Strade presidiate. E anche nelle altre aree dove tre anni fa scoppiò la rivolta.
Fabio Cavalera

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