by Sergio Segio | 17 Gennaio 2014 10:10
Doveva accadere. Ed è accaduto. Alcune settimane fa il Presidente XiJinping, dopo aver presentato il proprio programma di riforme al III Plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, di cui è Segretario Generale, si è recato in veste ufficiale a Qufu, nello Shandong, luogo natio di Confucio. Un atto insolito per un leader, di grande valore simbolico, con ricadute di non poco conto sul piano politico, un messaggio chiaro inviato all’interno e all’esterno della Cina.
Emulando il Primo Imperatore dei Qin, che dopo l’unificazione imperiale, avvenuta nel 221 avanti Cristo., aveva avviato l’era nuova che sarebbe dovuto durare «diecimila generazioni» recandos iprima nel tempio ancestrale della sua famiglia a onorare i propri antenati e in seguito sui monti sacrinelle quattro direzioni a onorare gli spiriti e le divinità che gli avevano assicurato sostegno e protezione, così XiJinping subito dopo la proclamazione ha reso deferente omaggio a Mao Zedong, padre fondatore della Cina moderna, e a Deng Xiaoping, senza la cui visione «lungimirante e coraggiosa» la Cina non sarebbe riuscita a riemergere tanto rapidamente dall’angolo buio in cui la storia l’aveva relegata. Come a dire: restiamo saldamente ancorati all’ideologia maoista, pur consapevoli che il processo di ristrutturazionee di consolidamento del ruolo politico internazionale del paese avviato oltre trent’anni fa è tutt’altro che concluso.
Discendenze imperiali
Per rafforzare la sua posizione all’interno del partito, a metà ottobre ha festeggiato con grande enfasi il centenario della nascita del proprio genitore, leader rivoluzionario degli anni Trenta, noto per le sue posizioni moderate, Xi Zhongxun. Una cerimonia solenne, tenutasi nella Grande Sala del Popolo in piazza Tiananmen, un evento consideratoda alcuni sproporzionato rispetto al reale peso politico riconosciuto al padre, ma necessario al segretario del Pcc per rimarcare con un atto di amore filiale le sue «nobili» origini («principini» o «discendenti imperiali» sono chiamati i figli dei rivoluzionari che hanno combattuto per la liberazione).
Per completare il quadro mancava però ancora qualcosa: sancire con un gesto inequivocabile il nuovo corso, dare un segnale chiaro della volontà di colmare il vuoto ideologico creatosi in seguito all’avvio di politiche di mercato liberiste e al frenetico sviluppo economico, che hanno modificato in modo radicale la struttura produttiva e sociale del paese, proporre un nuovo sistema di valori in grado di fornire risposte valide agli impellenti problemi di ordine pratico e alle molteplici sollecitazioni di ordine morale provenienti da ampi strati della popolazione, ritrovare un’etica di governo in grado di contrastare le lusinghe di ricchezze e privilegi, rafforzare il sistema di controllo sociale, soprattutto in quelle aree del paese meno beneficiate dal successo economico. Imprimere, in altre parole, un impulso nuovo al processodi rivalutazione dei valori e degli ideali tradizionali, volto a favorire la trasformazione del sistema di gestione e comunicazione del potere da una struttura partito-centrica di stampo autoritario a una più fluida, difficilmente omologabile a modelli di governance noti.
Per conservare il ruolo dominante di cui godeva in passato, il Partito comunista si è trovato a dover riformulare i propri fondamenti teorici e rivedere le proprie strategie comunicative. Abbandonati i modelli importati dall’Occidente, rivelatisi poco applicabili alla realtà cinese, è al proprio patrimonio storico-culturale e, in particolare, al confucianesimo, che ha garantito una sostanziale unità del paese per oltre due millenni, che si guarda con rinnovato interesse. Il graduale processo di confucianizzazione che sta coinvolgendo l’intera società e lo stesso partito ha assunto proporzioni inimmaginabili fino a poco tempo fa e rappresenta la maggior novità in ambito intellettuale.
Il messaggio di Xi è chiaro: tale processo non potrà proseguire per suo conto, non si vuole favorire una mera restaurazione del passatoma promuovere un movimento che, guardando al futuro, sappia fare la sintesi tra il liberalismo economico introdotto da Deng, i valori etici promossi da Confucio e l’ideologia di Mao,a cui non si intende in alcun modo rinunciare (in ballo c’è la sopravvivenza stessa del partito e del suo ruolo guida) e di cui Xi si erge a massimo interprete e difensore. Impresa non facile, se si pensa che nel periodo maoista il confucianesimo era all’indice in quanto ideologia reazionaria e deviante, espressione del sistema feudale del passato.
La visita a Qufu, l’invito a rileggere le opere di Confucio per ritrovare il significato profondo del suo insegnamento, soprattutto nel campo dell’etica di governo e dello stile di vita virtuoso (chiaro riferimento al problema della corruzione dilagante che rischia di minare la credibilità stessa delle istituzioni), l’esortazione a divulgare le dottrine confuciane «che possono giocare un ruolo positivo nella costruzione della nuova era» e a far sì che «il passato sia messo a servizio del presente» sono tutti segnali che vanno verso un’unica direzione. Un endorsement a doppio binario: esaltare Confucio significa infatti promuovere le dottrine del grande Maestro, ma al tempo stesso anche porsi sotto l’ombrello del suo prestigio e della sua autorevolezza, purché ciò avvenga nell’alveo indicato d Mao e da Deng. Questa volta non si è fatto come all’inizio del 2011 quando venne collocata nel cortile del Museo della Storia a piazza Tiananmen un’imponente statua di Confucio, tacitamente rimossa pochi mesi dopo. La visita a Qufu non potrà essere cancellata, è un fatto che resterà, inutili saranno quindi le polemiche e i ripensamenti.
Non una visita di circostanza dunque, ma un viaggio politico a tutti gli effetti, nello stile degli antichi sovrani. Il primo a recarsi nello sperduto villaggio di Qufuper onorare Confucio fu il fondatore della dinastia Han Occidentale (206 avanti Cristo — 9 dopo Cristo), Gaozu, che nel 195 aavanti Cristo decise di rendere omaggio a Confucio nel luogo che gli aveva dato i natali.
Vissuto quattro secoli prima, Confucio era considerato un semi-dio dotato di facoltà sovrannaturali, che avrebbe trasmesso ai suoi discepoli dottrine esoteriche e annunziato profezie che si sarebbero immancabilmente avverate. Gaozu rese omaggio all’uomo e alla divinità, allo studioso rinomato e al maestro di generazioni di discepoli, i cui insegnamenti sarebbero diventati ideologia di stato per i successivi due millenni. Nel piccolo tempio costruito accanto alla sua abitazione, che certo non aveva l’imponenza di quello attuale, Gaozu officiò una solenne cerimonia, che diede inizio a una consuetudine rituale che verrà seguita dagli imperatori successivi fino al 1911.
Alla fine del periodo imperiale si contavano circa 1500 templi sparsi un po’ ovunque. Come tutti i centri di culto, dopo il 1949 anch’essi furono abbandonati o distrutti nel corso della Rivoluzione Culturale. Solo quello di Qufu si salvò, essendo monumento nazionale dal 1961. Nel 1994 l’Unesco ha conferitolo status di Patrimonio dell’Umanitàall’intero complesso, secondo per dimensione alla Città Proibita di Pechino.
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