by Sergio Segio | 23 Gennaio 2014 10:47
Questa è la ragione che rende apparentemente futile l’esercizio imbandito dalle grandi potenze sotto l’egida delle Nazioni Unite in un multistellato albergo di Montreux, allo scopo di terminare la carneficina siriana e insediare a Damasco un governo di transizione. L’incantevole cittadina svizzera affacciata sul Lago Lemano ha dato nome a una quantità di conferenze entrate nella storia politico- diplomatica, tra cui l’abortito tentativo di fondare l’Internazionale fascista (convegni del dicembre 1934 e dell’aprile 1935 a cura dei Comitati d’azione per l’universalità di Roma) e i più concreti negoziati che diedero vita alla convenzione sul regime degli Stretti turchi (giugno- luglio 1936).
Tornano alla mente le considerazioni del primo presidente d’Israele, Chaim Weizmann, a proposito delle mediazioni internazionali in Medio Oriente, per cui il fascino degli alberghi a cinque stelle è inversamente proporzionale alla probabilità di produrvi la pace. L’incontro che ha radunato ieri a Montreux i rappresentanti di una quarantina tra Stati (incluso il
nostro) e organizzazioni di varia taglia è dunque perdita di tempo? La risposta provvisoria è sì. A meno che i suoi protagonisti non rendano utile in prospettiva un convegno oggi inutile, constatando la necessità di coinvolgere nel negoziato le effettive parti in conflitto e aprendo con esse trattative riservate, salvo poi solennizzare in una conferenza pubblica l’intesa eventualmente trovata. Ma chi sono, davvero, i contendenti di questa partita?
Contrariamente a quanto suggerito dalla “comunità internazionale”, come amano autodefinirsi le maggiori potenze, la guerra in Siria non è solo né soprattutto fra governo e opposizioni interne o in esilio. Il conflitto è molto più profondo e molto più ampio. È soprattutto una proxy war, una guerra indiretta fra Iran e Arabia Saudita per l’egemonia nel Grande Levante: dal Libano all’Afghanistan-Pakistan, tutta la Penisola Arabica compresa. Una guerra civile musulmana. A vari gradi di intensità. Essa oppone anzitutto la maggioranza sunnita (centrata su Riyad) alla consistente minoranza sciita (imperniata sull’Iran, ma diffusa financo in Arabia Saudita e nelle altre petromonarchie del Golfo). Una storia di secoli, tornata d’attualità dopo la fine della guerra fredda. In secondo luogo, essa riguarda lo stesso campo sunnita, che nella sua frammentazione clanico-tribale ed etnica è incomprimibile in un unico fronte, come dimostrato fra l’altro dal caso egiziano (Fratelli musulmani locali contro militari sponsorizzati dalla Casa di Saud). Risultato: la guerra di Siria si è estesa all’Iraq occidentale — conteso fra il governo sciita di Baghdad e le tribù sunnite dell’Anbar — e minaccia di incendiare nuovamente il Libano.
Tali molteplici fratture si riflettono nella mattanza siriana, dove le linee del fronte non esistono più. Qui l’Iran appoggia — non senza riserve — il regime di al-Assad, di cui l’Occidente ha stabilito tre anni fa che avesse i giorni contati e che oggi sembra militarmente imbattibile. Per Teheran si tratta del baluardo contro la penetrazione saudita nella regione e della garanzia di uno sbocco al Mediterraneo. L’Arabia Saudita e i suoi satelliti del Golfo sponsorizzano invece in funzione anti-iraniana l’arcipelago dei ribelli islamisti, alcuni dei quali usano il marchio al-Qaeda per rendersi più visibili. I sauditi pensavano di gestire il pluriverso jihadista attraverso le loro affiliazioni tribali, ma hanno sovrastimato la propria influenza. Tanto più che nei campi di battaglia di ciò che resta della Siria convergono aspiranti martiri da tutto il mondo — Russia, Europa (Italia) ed America comprese.
Infine, oltre alla scala siriana e a quella musulmana, occorre considerare quella globale, con la Russia a protezione del signore di Damasco e gli Stati Uniti — insieme ad alcuni alleati atlantici — che vorrebbero liquidarlo ma senza troppo esporsi e senza rinunciare al dialogo appena inaugurato con l’Iran. Di qui le incertezze e le gaffe di Obama.
L’Italia, che nelle partite diplomatiche su Siria e Iran ha giocato un ruolo rilevante, spesso riservato, cercando di orientarsi secondo il principio di realtà e non dimenticando quanto sia esposta nella regione (missioni in Libano e in Afghanistan), potrà forse contribuire a rendere più coerente il nesso fra coloro che si battono direttamente o indirettamente sul terreno e chi si accomoda nell’albergo di Montreux. È da questa premessa che può scaturire un negoziato efficace, dovunque esso si svolga. Se appare improbabile convocarvi ogni capo jihadista, serve però che di fronte all’Arabia Saudita sieda l’Iran. Perché solo una trattativa diretta fra Riyad e Teheran — favorita dagli occidentali e dalla Russia, e non ostacolata da Israele — sulla Siria e su tutte le maggiori questioni che insanguinano la casa dell’islam, può mitigare il massacro in corso e contribuire a rendere meno oscuro l’orizzonte nella regione più instabile del mondo.
* per un’agitazione decisa dal Comitato di redazione i giornalisti di Repubblica si astengono dalla firma
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