L’inchiesta sulla Cina e i conti offshore
Nella notte tra martedì e mercoledì 22 gennaio i siti di diversi quotidiani internazionali sono stati bloccati in Cina, dopo aver riportato la notizia di un’enorme inchiesta sui cosiddetti paradisi fiscali in cui sarebbero coinvolti manager e politici cinesi, alcuni dei quali molto vicini alla precedente e all’attuale leadership politica. I siti di Le Monde, del Guardian, del País, e quello del Consorzio Internazionale dei giornalisti investigativi – che è la fonte originaria dell’inchiesta – non sono infatti più accessibili dalla Cina. Non è possibile dire con certezza se si tratti di censura o di una coincidenza, ma il Guardian fa notare che non si tratta della prima volta che accade qualcosa del genere: nel 2012 il governo di Pechino aveva censurato i siti del New York Times e di Bloomberg dopo la pubblicazione di una serie di articoli che riguardavano gli affari di alcuni familiari dell’allora premier cinese Wen Jiabao.
L’inchiesta
L’inchiesta è stata chiamata “China Leaks” ed è stata realizzata dal Consorzio Internazionale dei giornalisti investigativi (ICIJ), un ente privato con sede a Washington che sovvenziona ricerche contro la corruzione e gli abusi di potere: è durata due anni, ha raccolto più di 200 gigabyte di dati finanziari e si è basata sull’analisi incrociata di 2,5 milioni di file.
L’esito dell’inchiesta è un elenco di 100 mila aziende e di più di 21 mila persone provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese, da Hong Kong e da Taiwan, che hanno o avevano legami con società nelle Isole Vergini, a Samoa e in altri “paradisi fiscali”. Le aziende in questione sono state create anche grazie all’intermediazione di grandi banche internazionali, tra cui UBS, Credit Suisse e Deutsche Bank. L’inchiesta ricostruisce anche le ricchezze e i poteri accumulati negli anni da queste persone e i loro legami familiari. Secondo una stima, dal 2000 tra i 1.000 e i 4.000 miliardi di dollari hanno lasciato la Cina senza lasciare traccia: tra gli affari di queste società – che non è sempre stato possibile ricostruire – ci sono petrolio, industrie minerarie, pannelli solari, armi.
Alcuni nomi
C’è il caso, per esempio, di uno degli uomini più ricchi del paese: Deng Jiagui, cognato di Xi Jinping, l’attuale presidente della Cina che ha insistito molto sulla propria immagine pubblica di attivista anticorruzione. Oltre ad avere investito nell’edilizia e nei metalli preziosi per la produzione di cellulari, Deng detiene il 50 per cento di una compagnia immobiliare – la Excellence Effort Property Development – nata nelle Isole Vergini la cui quota residua appartiene a un’altra società offshore che fa capo a due uomini d’affari cinesi. Gli stessi che, tra le altre cose, si sono aggiudicati l’appalto di 2 miliardi di dollari per la costruzione di un complesso commerciale a Shenzen.
C’è il caso del figlio dell’ex premier Wen Jiabao, Wen Yunsong, attuale presidente della China’s Satellite Communications, azienda statale leader delle telecomunicazioni, che nelle Isole Vergini – con l’aiuto della sede di Hong Kong di Credit Suisse – ha creato la società di consulenza Trend Gold Consultants, di cui era amministratore unico fino allo scioglimento avvenuto nel 2008. Liu Chunhang, ex manager di Morgan Stanley e marito di Wen Ruchun, figlia di Wen Jiabao, è attualmente manager di un’agenzia governativa che vigila sul mercato azionario cinese ma fino al 2006 era amministratore della Fullmark Consultants, nata nel 2004 nelle isole Vergini. Tra gli altri protagonisti del “China Leaks” ci sono Fu Liang, figlio di Peng Zhen, figura storica del partito comunista e tra i promotori della rivoluzione culturale degli anni Sessanta accanto a Mao Ze Dong, ci sono familiari di Deng Xiaoping, dell’ex primo ministro Li Peng e dell’ex presidente Hu Jintao. Ma ci sono anche i fondatori di Tencent Holdings Limited e la fondatrice dell’immobiliare Soho. Qui un grafico con le principali personalità coinvolte.
Qual è il problema?
Insomma, si tratta di una rete piuttosto complicata in cui compaiono i nomi degli uomini che sono stati al centro della scena politica o imprenditoriale cinese negli ultimi anni. Aver compiuto operazioni con società offshore non significa necessariamente commettere un reato. Il problema è piuttosto un altro: la contraddizione tra l’accumulo di ricchezze da parte di un élite e una forte disuguaglianza di reddito con la popolazione; tra il lancio di una grande campagna anti-corruzione da parte della nuova leadership (con processi anche molto seguiti dall’opinione pubblica) e un’economia che si serve sempre di più di società in luoghi protetti da segreto finanziario. Inoltre, l’economia cinese sta crescendo più lentamente che in passato e c’è la sensazione generale che gli imprenditori o i cosiddetti “principini rossi” (cioè i figli o i discendenti di importanti politici) mettano al riparo le loro ricchezze: tutto questo, unito alla scarsa libertà di stampa, pone una questione di fiducia piuttosto rilevante nei confronti della classe dirigente.
C’è anche chi ha però difeso il sistema dei conti e delle società offshore. Mei Xinyu, ricercatore presso il Ministero del Commercio cinese, ha fatto notare come abbia contribuito allo sviluppo del paese: «Dobbiamo essere lucidi e accettare questa realtà. È ovviamente preferibile una società che ha la base nel suo paese di origine, ma se quel paese non mette a disposizione un ambiente favorevole, andare a registrarsi da un’altra parte più conveniente è una scelta puramente pragmatica». Risulta che Cina e Hong Kong siano i clienti principali per questo sistema, con un numero di società registrate offshore sei volte superiore a quello, per esempio, degli Stati Uniti.
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