Letta sotto pressione Alfaniani e centristi evocano la rottura

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ROMA — «Un passo indietro? E perché? Non sta a me fare la sintesi sulla legge elettorale e un’intesa complessiva è ancora possibile». Enrico Letta non ha mai pensato di salire al Quirinale per dimettersi lunedì mattina, come accreditano alcune ricostruzioni. E se Matteo Renzi conia l’hashtag #iononmollo, di sé il premier va dicendo altrettanto. Non perché gli stia a cuore il suo destino personale, assicura, ma per il destino del Paese: «Per l’Italia il costo di una rottura sarebbe altissimo. E sono convinto che si debba lavorare con tutte le forze per evitarla».
L’altra sera, quando a Palazzo Chigi sono saliti per cena Renzi, Franceschini, Alfano, Delrio e Lupi e si sono chiusi nello studio del premier, si è sfiorato l’irreparabile. «Io l’accordo con Berlusconi ce l’ho in tasca» ha esordito il leader pd, scatenando l’ira di Alfano. «Se si va sul sistema spagnolo il Nuovo centrodestra esce dalla maggioranza e il governo cade — ha replicato duro il ministro dell’Interno — è questo che vuoi?».
La risposta politica dei piccoli partiti si è vista ieri, quando Ncd, Scelta civica e Popolari per l’Italia hanno chiesto «un incontro di maggioranza urgente» per discutere di doppio turno e scongiurare «una crisi al buio». Gaetano Quagliariello lo ha ribadito in mattinata in un teso Consiglio dei ministri, quando ha risposto a distanza a Renzi: «Visto che si ironizza sul mio presunto immobilismo, Enrico, adesso tiriamo fuori dal cassetto i miei tre ddl su bicameralismo, Titolo V e abolizione del Cnel… E sulla legge elettorale facciamo un bel dibattito in cdm».
Iniziata male, la cena di Palazzo Chigi era finita peggio, tanto che ieri a Montecitorio si respirava una gelida aria di crisi imminente. «La situazione è molto grave» ammette Letta, che pure si sente «in pista» e non ha perso le speranze. Il premier si dice sereno, ancora fiducioso nella possibilità di trovare una soluzione che consenta la ripartenza. «È chiaro Matteo che un accordo con Berlusconi avrebbe delle conseguenze sul governo e sul Pd», lo aveva ammonito Letta nel momento più ruvido del vertice, evocando il rischio scissione. «Ma il problema più serio è l’instabilità che questo percorso sta generando, si rischia di danneggiare il Paese e disperdere i primi segni di ripresa, quando invece dovremmo trasformare i risultati in posti di lavoro». La sfida di Letta non è tanto contro la crisi di governo, è contro la crisi economica. «Non è una battaglia contro Renzi, è una guerra contro l’antipolitica». Così il premier ha spiegato ai suoi lo sforzo di queste ore, in cui ha rinunciato a far sentire la sua voce sul modello elettorale e ha lasciato a Renzi le trattative.
Letta pretende che il segretario riconosca la necessità di condividere la responsabilità di un esecutivo che «non può stare solo sulle mie spalle» e su quelle della parte filo-governativa del Pd: «O ci stiamo tutti, o andiamo tutti a casa». La porta è strettissima e il premier è pronto a tutto: «Non resterò a Palazzo Chigi a tutti i costi e non mi lascerò logorare». Se Renzi accetta la «co-responsabilità» del governo e compie il miracolo di una legge che tenga assieme Alfano e Berlusconi – come vorrebbero i mediatori – si firma l’Impegno 2014 e si formalizza il «nuovo inizio». Con un rimpasto o con un Letta bis. Se invece Renzi strappa, è il timore di Palazzo Chigi, è perché vuole votare con il proporzionale. «Ma se accade — lo ha avvertito Letta — sarà la paralisi. E le responsabilità ricadranno sul Pd».


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