Letta e Renzi, quasi nemici

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 Perfino i partiti personali, il partito del Capo (tratteggiati da Mauro Calise e Fabio Bordignon) rischiano di invecchiare in fretta.
Raccontare la politica, oggi, significa, infatti, parlare delle Persone e dei Capi. “Senza” i partiti. Personali o impersonali: non importa. Così le cronache riguardo alla complessa vicenda della legge elettorale si riassumono nel rapporto personale — e contrastato — fra Renzi e Letta. Matteo ed Enrico. Quasi amici. O meglio: quasi nemici (come pensa quasi metà degli italiani, secondo un sondaggio Ipsos). Uniti o, forse, divisi, dalla comune appartenenza a un “partito ipotetico” (per echeggiare Edmondo Berselli). Il Pd. Un “quasi partito”.
Matteo ed Enrico. Così vicini eppure così lontani. Appartengono a generazioni contigue, ma non comunicanti. Letta: ha quasi cinquant’anni. Ha fatto politica fin da giovane, perché i partiti, quando aveva vent’anni, c’erano ancora. La Dc, in particolare, dove ha “militato” fin da piccolo. E dove ha imparato la politica come arte della mediazione e del compromesso. Certo, negli anni Ottanta i partiti di massa stavano perdendo le masse per strada. Resistevano le classi dirigenti. Quella stagione è definitivamente crollata nel 1989. Insieme al muro di Berlino. Insieme al referendum del 1991 “contro” la preferenza multipla e “contro” la partitocrazia. Letta, dunque, è un post-democristiano. In seguito: popolare, ulivista, democratico. Affezionato al voto di preferenza. A trent’anni era già al governo. Dove è rientrato in successive occasioni. Fino ad oggi. Premier di un governo che dispone di una maggioranza parlamentare incerta e di una minoranza elettorale certa. Espresso da un partito, in parte ostile. E diviso. Ipotetico.
Anche perché è guidato da un Capo che del partito non si occupa più di tanto. Renzi: eletto segretario, due mesi fa, alle primarie, con una maggioranza travolgente. Dopo essere stato sconfitto giusto un anno prima da Bersani. Portabandiera di un partito “vero”. Radicato e cresciuto nel secolo delle ideologie e della partecipazione di massa. Ultimo atto della storia della Prima Repubblica, a cui la sinistra italiana è rimasta fedele. Fino, appunto, alle elezioni di febbraio. Quando è divenuta evidente l’impotenza di un partito impersonale di fronte ai partiti personali vecchi e nuovi: Pdl e M5S. E ai loro leader. Berlusconi e Grillo. Diversi e opposti, ma entrambi leader senza partiti. Oppure non-partiti, come Grillo ha definito il M5S.
Così, dopo il voto, il Pd si è arreso a Renzi. Che ha accettato di guidarlo per non averlo contro. Anche se lui, ai partiti — tradizionali o riformati — non ci crede proprio. Questione di generazione politica. Se Letta ha “quasi” cinquant’anni, Renzi ne ha “quasi” quaranta. Quando è crollato il muro, Renzi aveva appena finito le medie. E i partiti erano nella bufera. Delegittimati e deboli. Pochi anni ancora e sarebbero stati travolti da Tangentopoli. Così, Berlusconi “scendeva in campo”. E occupava il vuoto politico lasciato dai partiti. Con le sue televisioni, i suoi esperti di mercato, le sue risorse, il suo stile di comunicazione. Imponeva il modello della “politica come marketing”. Accanto al suo partito personale. Renzi, allora, era appena divenuto maggiorenne. I “movimenti politici giovanili” appartenevano alla storia del passato. Come i partiti, la Resistenza. E il Risorgimento. Nel 1996, Renzi diventava partigiano del Partito dell’Ulivo (non “dei partiti”), alternativo al Partito personale di Berlusconi. Prodiano, insomma. Mentre Letta entrava nel primo governo Prodi, come ministro. Il più giovane della storia della Repubblica. Enrico e Matteo, Matteo ed Enrico.
Così vicini eppure così distanti e diversi. Per storia, tradizione, stile. Separati in casa. D’altronde, la Casa comune attualmente non c’è. Il Pd rammenta, piuttosto, un campeggio, come quelli degli scout, dove Matteo si è formato. Molte tende con molte persone. Pochi confini. Itinerari e programmi decisi giorno per giorno. Il gusto della scoperta. L’importanza del Capo che decide e indica il percorso. D’altronde, è ciò che oggi chiede e si attende il Paese. Quasi il 70% degli italiani, infatti, è d’accordo con l’opinione secondo cui, in questo clima di confusione, “ci vorrebbe un uomo forte alla guida del Paese” (Sondaggio Demos, gennaio 2014).
Un Uomo Forte. Una formula inquietante, vista la nostra storia. Ma non ce n’è motivo. Perché coloro a cui piace questa idea non mettono in discussione la democrazia (“il migliore dei sistemi possibili”, per quasi i tre quarti di essi), ma, piuttosto, i partiti e il Parlamento. Cioè: gli attori della democrazia rappresentativa. Incapaci di decidere. E di generare passione. Per questo la vicenda della legge elettorale diventa importante. Perché chiama in causa il “principio” della Democrazia rappresentativa. Il voto. Matteo, coerentemente con lo spirito del tempo, recita la parte dell’Uomo Forte. Intende, cioè, segnare la fine della Seconda Repubblica e avviare l’era post-berlusconiana con il consenso (la sottomissione?) di Berlusconi. Attraverso una riforma che intende (e deve) realizzare in fretta. Perché prima e più dei contenuti contano il risultato e i tempi. Il messaggio. L’immagine di Matteo, l’Uomo Forte in grado di decidere, in pochi mesi, ciò di cui si parla senza esito da molti anni. Il Partito, per questo, diventa un mezzo. È il post-Pd, senza bandiere. Al suo servizio. Anche il governo, il Parlamento, devono seguire Matteo. Difficile che ciò possa avvenire senza tensioni e senza strappi. Che “gli altri (piccoli) capi” del Pd (e non solo) si accodino. Ma, soprattutto, che Letta si adegui. È una questione di ruolo e di cultura politica. Ma, prima ancora, di storia e di profilo personale. Così Enrico cercherà di disseminare il percorso di Matteo con trappole e intoppi. Per ritardarne la marcia. Visto che il tempo è la risorsa simbolica dell’Uomo Forte. E Matteo vuole fare in fretta. Per questo, nei prossimi giorni, attendiamoci altre tensioni. Altri conflitti. Enrico e Matteo. Quasi nemici. Ne resterà soltanto uno.


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