Le sette sedi di Palazzo Chigi, affitti d’oro per 6,7 milioni

by Sergio Segio | 10 Gennaio 2014 7:40

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ROMA — L’hanno sabotata. Quindi mutilata. Infine imbrigliata, sospettano i suoi autori, per annullarne addirittura il carico esplosivo. Ma pure così la norma sugli affitti d’oro partorita dai grillini, poi subito abrogata e infine recepita edulcorata (il tempo per il recesso ridotto a sei mesi anziché un anno e l’obbligo di preavviso allungato da uno a sei mesi) nel decreto milleproroghe, deve rappresentare ancora un discreto spauracchio . Anche al di là dei palazzi Marini della Camera dei deputati, il suo bersaglio principale. Tanto che la prima amministrazione a utilizzarla come tale non sarà Montecitorio bensì la presidenza del Consiglio, alle prese con la revisione della spesa. Affitti, e non pochi, compresi.
C’è scritto nel piano di razionalizzazione degli immobili di Palazzo Chigi predisposto dagli uffici del segretario generale Roberto Garofoli, dov’è prevista la prossima «pubblicazione, anche in forza della recentissima norma introdotta nel d.l. milleproroghe che consente il recesso dei contratti di locazione, di un avviso di indagine esplorativa per verificare la disponibilità di uno o più immobili da assumere in locazione con canoni inferiori a quelli attualmente corrisposti per altre sedi uso ufficio». Dunque un’arma, se non proprio per liberarsi degli affitti, almeno per tagliare i costi. Sempre che funzioni, beninteso.
E qui è necessario fare un passo indietro. Negli anni scorsi gli uffici di Palazzo Chigi si sono gonfiati fino a scoppiare, al punto che nemmeno lo stabile prospiciente di Galleria Alberto Sordi, nel quale si sarebbero dovute concentrare tutte le funzioni periferiche, poteva contenerle. La presidenza del Consiglio ha così pian piano allagato Roma, fino a contare nel 2011 il picco massimo di ben 20 sedi. Molte delle quali affittate da privati o enti di previdenza. Con un costo non proprio indifferente: 13 milioni 685.650 euro. Poi ridotti nel 2012 a 12 milioni 543.947. Per subire un nuovo e più drastico calo allo scadere di quell’anno, grazie alla dismissione di alcuni uffici. Per esempio, i locali del dipartimento per la Semplificazione che era affidato al leghista Roberto Calderoli in San Lorenzo in Lucina, una delle piazze più centrali e prestigiose di Roma: che attualmente accolgono la principesca nuova sede del partito di Silvio Berlusconi.
Ma anche ciò che resta non è proprio trascurabile, considerando che si tratta di pagare 6 milioni 700 mila euro di pigioni per sette immobili, cui si devono aggiungere i 5 milioni e passa di canoni di un paio di sedi della Protezione civile. Dal primo febbraio due dei sette uffici, in via dei Laterani e via della Vite, saranno restituiti ai proprietari, l’Inps e l’Enpaia (l’ente dei previdenza degli agricoltori) con un risparmio previsto di 868 mila euro annui. Per i cinque rimanenti, fra cui quello dell’Inps in via della Ferratella (2 milioni 40 mila euro il canone) e il palazzo Verospi affittato da Unicredit per 1,6 milioni, scatterà l’«indagine esplorativa» annunciata nel piano di razionalizzazione. Con l’obiettivo di reperire un immobile demaniale dove collocare a regime, spiega il progetto, gli altri uffici della presidenza per i quali attualmente si paga una pigione. Sono stati già fatti sopralluoghi in alcuni edifici inutilizzati del ministero della Difesa, per esempio la caserma Ruffo e il forte Trionfale. E se le trattative con l’Agenzia del Demanio e il ministro Mario Mauro avranno successo, già entro la fine del 2014 l’autoparco e i magazzini di Castel Nuovo di Porto, un paese sulla via Flaminia a 28 chilometri da Roma, potrebbero essere trasferiti in una struttura ex militare.
Resta il problema Sergio Scarpellini. Direte: che c’entra con Palazzo Chigi l’immobiliarista che affitta alla Camera i palazzi Marini nei quali si trovano gli uffici dei deputati? C’entra eccome, anche qui. Perché è lui il proprietario dello stabile nella centralissima via dell’Umiltà, al numero 13, affittato alla presidenza del Consiglio per un milione 80 mila euro l’anno. Lì dentro c’è la sede della stampa estera in Italia: un lascito dell’ex ministero delle Poste rimasto sul groppone della presidenza del Consiglio.
Ma per quanto possa sembrare assurdo che un qualunque governo si sobbarchi la spesa per dare una sede ai corrispondenti dei giornali stranieri nel proprio Paese, non è nemmeno facile risolvere la questione. Perché la cosa è prevista nientemeno che dalla legge sulla stampa degli anni Ottanta. Dove un comma recita: «Il ministro delle Poste e delle telecomunicazioni è autorizzato ad istituire sale stampa, destinandovi appositi locali e proprio personale. È autorizzato inoltre a porre a disposizione dell’Associazione della stampa estera in Italia un’idonea sede e proprio personale». Dunque bisognerebbe cambiare la legge. In caso contrario, qualcuno riesce a immaginare che i giornalisti esteri possano finire in una caserma, gomito a gomito con gli impiegati del governo?

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