LE RESISTENZE FUORI TEMPO MASSIMO
Da tempo era chiaro che per il nuovo segretario la riforma elettorale sarebbe diventata una specie di medaglia da appuntarsi al petto; oppure un grimaldello per tentare di scardinare ciò che rimane delle larghe intese. Il modo in cui si è mosso ha confermato una determinazione e una spregiudicatezza tali da spiazzare in primo luogo il proprio partito; ma anche in grado di accelerare le prospettive di una legge attesa da troppo tempo. Si vedrà se l’incontro odierno con Silvio Berlusconi, contro il quale il Pd bersaniano è insorto, produrrà risultati e quali. Ma l’idea di imbrigliare Renzi adesso, come denuncia il suo alleato e consigliere Angelo Rughetti, suona velleitaria e fuori tempo massimo. Soprattutto se ci si limita a demonizzare il colloquio con uno dei capi delle opposizioni. Potrebbe perfino ritorcersi contro chi la coltiva, perché sottolinea un ritardo di comprensione e un atteggiamento politico tesi a frenare e bloccare un leader scelto alle primarie per cambiare. Per quanto il suo metodo rischi di far saltare tutto e portare l’Italia verso un’avventurosa campagna elettorale, l’ultimo a potersene dolere appare proprio il Pd. Renzi è il prodotto dell’immobilismo e delle frustrazioni della sinistra. Rappresenta l’adozione di un modello di leadership «alla Berlusconi» per emanciparsi dalla subalternità al Cavaliere.
È stato investito dopo primarie sempre esaltate come un «bagno di democrazia», per quanto, almeno in passato, pilotate dall’apparato: una nomenklatura talmente paralizzata dai veti reciproci che non è riuscita a opporgli un candidato davvero forte. Se Renzi riuscirà a saldare l’asse con Berlusconi tramite l’amico fiorentino Denis Verdini, coordinatore di FI, la coalizione di governo promette di esplodere. Sarebbe difficile, infatti, chiedere ad Angelino Alfano ma anche a Scelta civica di avallare una riforma elettorale che significherebbe la loro fine. Meglio, per loro, andare a votare con ciò che resta del vecchio sistema dopo la bocciatura della Corte costituzionale: e cioè il proporzionale puro. Come minimo, costringerebbero gli altri partiti a ricostituire una maggioranza di larghe intese, perché nessuno verosimilmente otterrebbe abbastanza voti. Esiste anche l’eventualità che alla fine uno scontro segnato dall’istinto di sopravvivenza delle singole forze politiche, si risolva in un compromesso. Roberto D’Alimonte, il professore della Luiss che in queste settimane è diventato il consigliere principe di Renzi su seggi e percentuali, sta cercando la cosiddetta quadratura del cerchio. Se riuscisse, e sarebbe un miracolo, l’azzardo renziano si rivelerebbe una vittoria. Altrimenti, fare previsioni diventerebbe impossibile. Un’affermazione dello schema del segretario è destinata però a rendere residuali gli alleati di Enrico Letta; e dunque ad affossare il governo a pochi mesi dall’inizio del semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo. E, cosa paradossale per il Pd, con un patto sulle regole che restituirebbe, anzi ha già restituito a Berlusconi un ruolo a dispetto delle condanne e della decadenza da senatore. Gli avversari sostengono che il leader dei Democratici sta «bluffando», perché in Parlamento i numeri sono a favore del governo. È probabile che alle Camere Letta abbia ancora la maggioranza: nessuno vuole andare a casa ad appena un anno dalle ultime elezioni. Ma lo sfondo è cambiato. Dopo la scissione del Pdl tra Forza Italia e Nuovo centrodestra, l’arrivo di Renzi mostra una sinistra spaccata sulle «larghe intese», in modo simmetrico e opposto agli avversari. Le incognite si sono spostate tutte a sinistra. E sulla riforma elettorale il danno o il vantaggio politico possono rivelarsi tali da bruciare o consacrare una leadership. C’è solo da sperare che il Pd si renda conto di quanto questa competizione al suo interno possa costare al Paese. E che sappia che stavolta Berlusconi non può essere più usato come alibi.
Massimo Franco
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