L’avvertimento del premier al segretario Telefonata tesa prima del summit
ROMA — Alle dieci di sera, al termine di un giornata convulsa, che ha già registrato una telefonata non proprio serena, per usare un eufemismo, Renzi varca il portone di Palazzo Chigi. È Letta a chiedere di vederlo, così com’è il premier nel pomeriggio che alza la cornetta.
Ieri Letta attendeva due cose: una parole definitiva sul Job Act, il piano sul lavoro del Pd, e una scelta sulla legge elettorale. Su entrambi i punti ha constatato che dovrà ancora attendere: la direzione di Renzi si è riunita e non ha deciso.
Nel pomeriggio a Palazzo Chigi replicano agli attacchi del segretario del Pd con molta eleganza: la difesa di Letta è istituzionale, l’auspicio è che Renzi abbia successo nel trovare un’intesa sul modello di legge elettorale. L’iniziativa del sindaco di Firenze sul punto è «coraggiosa e opportuna», aggettivi vagliati con una punta di ironia che appare volontaria, visto lo slittamento.
Letta incontra Saccomanni mentre Renzi dal palco descrive il premier senza visione per il futuro e responsabile di alcuni fallimenti. Il doppio registro appare quasi surreale, mentre le provocazioni del segretario del Pd rafforzano l’esigenza di un silenzio che non è meramente difensivo. «Non sempre la sovresposizione conduce da qualche parte», è l’analisi sorniona che si ascolta nelle stanze in cui lavora il presidente del Consiglio.
Insomma alla fine uno dei rischi che Letta ha manifestato a Renzi nei giorni scorsi si sta materializzando: nel fiume di parole del segretario del Pd affiorano le prime difficoltà, il partito appare spaccato su diversi punti, Letta deve costruire risultati e non può che esserne molto preoccupato.
Per il premier «l’unità del Pd è un mantra». Il perno della maggioranza non può permettersi di avere al suo interno spaccature, visioni diverse e nemmeno indecisioni: le elezioni Europee sono alle porte, Grillo è sempre lì, pronto a fare il pieno di voti al minimo passo falso dei partiti, se il Pd non regge non è a rischio il governo, «ma il Paese e la sua tenuta», è la convinzione del presidente del Consiglio. Che viene girata in modo molto diretto al segretario del Pd i sia nella telefonata che nell’incontro serale di due ore, aggiungendo che sarebbe un «capolavoro, in quattro mesi, mettere in crisi il governo e riconsegnare Alfano a Berlusconi». E nella cornice di un «dialogo che resta aperto su tutti i fronti» c’è anche il caso De Girolamo.
Del resto per Letta parla già un’ala del suo partito: il profilo scelto da Renzi suscita una serie di dubbi che prendono corpo durante la direzione ed è ovvio che un partito diviso non può essere di grande aiuto all’esecutivo: ne dovrebbe costituire il traino, rischia invece di schiacciarlo.
Nella cornice di un rapporto che al momento fa notizia più per i toni mediatici che per altro, nonostante l’incontro serale, resta la sensazione che «il contributo di Renzi al contratto di coalizione che Letta sta scrivendo sia minimo», dice un ministro che transita nella giornata da Palazzo Chigi.
Forse fra qualche giorno Letta chiederà un via libera su un documento e un metodo di lavoro, con cui attuare il nuovo programma. Se poi come sembra sceglierà il passaggio parlamentare per una ripartenza istituzionale a quel punto si vedrà quanto il Pd è realmente unito. E sino a che punto Renzi è disposto a demolire l’operato del governo.
Marco Galluzzo
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