L’appello del vescovo di Bangui “Fermate la violenza in Centrafrica”
ROMA — Da mesi, la Repubblica centrafricana è preda della violenza. Solo ieri, sono morte 24 persone, di cui tre bambini: musulmani uccisi da milizie cristiane mentre cercavano di fuggire dai combattimenti che insanguinano il paese dal dicembre 2012, quando Michelle Djotodia ha rovesciato il presidente François Bozizé. I ribelli Seleka, schierati con Djotodia, si sono resi responsabili di violenze terribili, che hanno scatenato le rappresaglie di gruppi cristiani armati. Dopo l’allontanamento dal potere di Djotodia, imposto dalla comunità internazionale, oggi il paese va alle urne per scegliere un nuovo presidente: in grado, si spera, di farlo ripartire.
Alla vigilia di un appuntamento tanto importante è venuto a Roma l’arcivescovo di Bangui Dieudonnè Nzapalainga, una delle personalità principali del paese: da mesi, lui, l’imam Omar Kobine Layama e il capo della chiesa protestante Nicolas Guerekoyame-Gbangou lavorano insieme per la pacificazione. Li hanno chiamati “i tre santi di Bangui”. Mosignor Nzapalainga è qui nei giorni in cui il capo delle operazioni umanitarie Onu John Ging, appena rientrato dal Centrafrica, dice: «Ci sono tutti gli elementi perché si arrivi a un genocidio come in Ruanda o in Darfur».
L’arcivescovo, l’imam e il pastore cercano i punti in comune di una popolazione di 5 milioni di persone all’80% cristiana, con un 15% di musulmani e un 5% di animisti: «Il conflitto non è religioso », dicono. I “tre santi” girano città e villaggi per domandare a islamici, cattolici, protestanti, animisti, di recitare una preghiera scritta insieme: «Che il Signore cambi il nostro cuore per poter tendere la mano all’altro, averne fiducia, lavorarci insieme.
Chiediamolo a Dio. Ma ricordiamo: poi c’è la nostra responsabilità ». La richiesta vale per ogni centrafricano, ma sembra valida anche per l’Occidente che a lungo è rimasto in silenzio: finalmente nelle prossime ore a Bruxelles anche l’Unione europea sarà chiamata a esprimersi sulla crisi.
A Roma ospite di Sant’Egidio, che ha favorito un patto fra le parti già in settembre, usato poi dall’Onu nella risoluzione, monsignor Nzapalainga racconta: «L’arrivo dei Seleka al potere ha significato un certo privilegio almeno per alcuni musulmani. Quei miliziani non sanno né il francese né il sango, la lingua locale: chi sa l’arabo a volte è riuscito a scampare ai saccheggi, agli incendi, alle violenze su donne e bambini. E man mano è stato coinvolto: i miliziani hanno anche armato i figli dei musulmani, trasformandoli in bambini soldato». Poi, spiega l’arcivescovo, sono nati i gruppi di cristiani “anti-machete”: «Sono gente comune che cerca vendetta per i parenti uccisi. Non li posso definire cristiani, loro stessi mi dicono: “La croce la prenderò quando avrò finito”».
Il viaggio dei “tre santi” ripercorre le orme della violenza, fermandosi in ogni villaggio per farsi raccontare, invitare a pentirsi, a sfogarsi. «Un contadino mi ha detto come ha perso tre dei sui figli, fuggendo dalla violenza: 90 chilometri di boscaglia senza cibo. Uno dopo l’altro, i bambini morivano e lui non poteva neppure seppellirli, li copriva con un fascio d’erba tagliato, poi riprendeva il cammino con i sopravvissuti. Sono arrivati in città, a Bozoum, solo lui, il figlio grande e la moglie con il piccolo in braccio». Anche a loro monsignore ha detto: niente rancori, né vendette.
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