LA VOCE DEL DISAGIO

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Lo è in senso politico: mai come oggi l’Italia scissa tra piazza e Palazzo sopravvive suo malgrado sul crinale instabile del «semipresidenzialismo di fatto».

Il discorso di fine anno del Capo dello Stato riflette le ombre di quel «Paese senza » descritto da Ilvo Diamanti. Un Paese senza patrie grandi o piccole e senza riferimenti comuni e condivisi, una società lontana dalla politica e orfana delle istituzioni. Entrambi alla deriva, costretti ad aggrapparsi all’unico appiglio che ancora resiste. Nonostante i deliri sull’impeachment (relegati finora al circuito della propaganda) e gli inviti al boicottaggio (smentiti dai dati sugli ascolti).
Chi si aspettava moniti dolorosi o annunci clamorosi sarà rimasto deluso. Il presidente della Repubblica, pur riaffermando l’urgenza delle riforme economiche e costituzionali, ha giustamente rinunciato ai rituali ma purtroppo sempre più sterili «appelli» a un establishment cieco e sordo. E pur riconfermando la natura stra-ordinaria e dunque provvisoria del suo secondo mandato, ha opportunamente evitato di usare in modo esplicito l’arma delle dimissioni come una minaccia, o peggio un «ricatto». Ha usato un registro nuovo, cercando un equilibrio costante tra tensione morale e attenzione istituzionale. E l’ha trovato.
La tensione morale si coglie nel racconto in presa diretta di questa Italia stanca e impoverita. Il Capo dello Stato ha rinunciato a parlare in prima persona, e ha preferito far parlare direttamente i cittadini, da Vincenzo dalle Marche a Veronica da Empoli, attraverso le lettere che arrivano ogni anno al Quirinale. Un modo efficace, per dare voce al disagio profondo che attraversa un Paese sospeso tra recessione e disoccupazione, e per dare un nome e un volto a un popolo sfiduciato e sofferente, che esprime attraverso il Colle le sue ansie quotidiane e le sue speranze tradite. Implicitamente, è come se Napolitano dicesse a chi lo critica o lo accomuna alla Casta: le mie saranno anche frasi retoriche, ma riflettono davvero lo stato d’animo della gente comune, che magari non urla nei Vaffa-day e non agita forconi nelle strade, ma non per questo, o forse proprio per questo, non merita risposte adeguate e immediate. E così, ancora una volta, nonostante l’inevitabile calo di fiducia che secondo il sondaggio Demos colpisce in parte anche il Quirinale, Napolitano tenta di tenere vivo il suo legame con l’opinione pubblica. Al controllo indiretto esercitato su partiti ormai incapaci di assumere un orientamento autonomo (per dirla con Mauro Calise), il presidente della Repubblica è in grado di aggiungere la forza che gli viene da un rapporto diretto con i cittadini. Ed è per questo che resta comunque un punto di riferimento credibile per una nazione disgregata in quella che Giuseppe De Rita chiama la «poltiglia antropologica».
L’attenzione istituzionale è invece racchiusa da un lato nell’incitamento sempre pressante, rivolto al governo e al Parlamento, a fare quelle «riforme obbligate e urgenti» senza le quali la democrazia è «a rischio destabilizzazione», ma dall’altro lato nel riconoscimento dei «limiti» che la Costituzione assegna al Capo dello Stato. Forse per la prima volta, dopo mesi di oggettivo protagonismo presidenziale, il Quirinale sembra fare quasi un passo se non indietro di lato, rispetto al conflitto politico. Conferma il sostegno convinto al governo Letta, ma lo invita a scuotersi dalla sindrome del galleggiamento e attraverso scelte «lungimiranti e continuative». Ribadisce il primato del Parlamento, ma lo incita a varare «qui ed ora» le riforme «sollecitate dai cittadini stessi» e a dotarsi in fretta di «nuove regole». Rilancia il ruolo dei partiti, ma li ammonisce a fare gli stessi «sacrifici» imposti ai contribuenti, e ad approvare subito quella nuova legge elettorale senza la quale è impensabile e irresponsabile evocare il voto anticipato.
Qui, sul piano più strettamente politico, c’è forse l’unica vera novità del messaggio presidenziale. Correggendo quello che aveva sostenuto nelle scorse settimane, Napolitano parla di riforma elettorale da varare «a larga maggioranza». E dunque, con tutta evidenza, anche al di là del perimetro delle Strette Intese che reggono le sorti di questo scorcio di legislatura. Un buon viatico per Renzi, che pur di superare il proporzionale cerca il dialogo con Berlusconi e con Forza Italia. Purché il leader del Pd non dimentichi la lezione amara di Veltroni, che nel 2008 si bruciò le mani nel vano tentativo di firmare il «patto col diavolo ». Ma a parte questa apertura, nell’insieme l’impressione è che dopo una lunga fase di «casti connubi» (per ripescare una formula morotea) Napolitano ora cerchi di recuperare la «giusta distanza» rispetto al «triangolo » istituzionale, e di ristabilire una corretta gerarchia delle responsabilità politiche. implicitamente, è come se il Capo dello Stato dicesse ai partiti: tocca a voi, non a me, modernizzare l’Italia, riscrivere la Costituzione e rifondare la democrazia.
Non lo ascolteranno, purtroppo. Ma fissare questo paletto serve al Capo dello Stato a sferrare l’attacco finale a Beppe Grillo. A respingere con forza le «campagne calunniose» e le «minacce» del capo-comico genovese. A liquidare come «ridicole » le accuse di una sua riconferma sul Colle dovuta a mire di «strapotere personale». Quel «non mi farò condizionare» tuonato in diretta tv da Napolitano ricorda il famoso «non ci sto» che in tutt’altra epoca e in tutt’altre condizioni scandì in Parlamento Oscar Luigi Scalfaro. Allora come oggi, il solo «movente » dell’uno e dell’altro è il senso di responsabilità. Ed è vero, come scrive Adriano Sofri nel suo magnifico libretto su Machiavelli, che «il senso di responsabilità è il farmaco fatale del potere, medicina e veleno, guai a mancarne ma guai a restarne prigionieri». Ma è ancora più vero che quel senso di responsabilità sembra l’ultimo e l’unico antidoto contro i populismi e gli sfascismi della mai nata Terza Repubblica.


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