La vocazione globale dell’industria criminale

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Descrive il suo lavoro sul mondo del nar­co­traf­fico mes­si­cano come «gior­na­li­smo infra­rea­li­sta» che, sulla scia di quanto fatto in pas­sato dal scrit­tore cileno Roberto Bolaño, mescola realtà e imma­gi­na­zione, gusto nar­ra­tivo e tec­nica d’inchiesta. «Non basta vedere le cose con i pro­pri occhi per poterle rac­con­tare, se ciò a cui assi­sti è ter­rore allo stato puro: corpi fatti a pezzi, gente tor­tu­rata, migliaia di morti — spiega al mani­fe­sto , prima di aggiun­gere — Biso­gna meta­bo­liz­zare il tutto e sca­vare oltre la super­fi­cie gra­zie alla cul­tura, alla poe­sia, all’immaginazione, a ogni altra risorsa di cui si dispone. Pro­prio Bolaño, che non era mai andato oltre Città del Mes­sico, ha scritto alcune delle pagine più belle sul feno­meno dei nar­cos. Per que­sto lo con­si­dero la mia prin­ci­pale fonte di ispirazione».

Diego Enri­que Osorno ha solo tren­ta­tre anni, ma è con­si­de­rato uno dei più impor­tanti gior­na­li­sti lati­noa­me­ri­cani. Ha pub­bli­cato cen­ti­naia di arti­coli, cin­que libri, uno dei quali pub­bli­cato quest’anno nel nostro paese da La Nuova Fron­tiera, Z. La guerra dei nar­cos, e ha diretto il docu­men­ta­rio El Alcalde. Negli ultimi quin­dici anni ha rac­con­tato ogni giorno dalla città di Mon­ter­rey, capi­tale cri­mi­nale del nor­dest del paese, le tra­sfor­ma­zioni e lo svi­luppo del nar­co­traf­fico in Messico.

Nei suoi libri spiega come i nar­cos non siano più inte­res­sati sol­tanto al com­mer­cio di mari­juana e cocaina, che volto ha oggi que­sto fenomeno?

A par­tire dalla seconda metà degli anni Novanta il Mes­sico, al pari di altri paesi dell’America Latina, ha assi­stito alla pro­gres­siva inte­gra­zione del nar­co­traf­fico nella nuova realtà del capi­ta­li­smo sel­vag­gio che ha preso forma a livello inter­na­zio­nale. Se prima di allora il feno­meno poteva godere soprat­tutto delle com­pli­cità o dell’appoggio di appa­rati sta­tali cor­rotti, o del soste­gno di governi e isti­tu­zioni col­lusi o aper­ta­mente «in affari» con i nar­cos, da quel momento in poi la con­nes­sione più impor­tante si è avuta con il mondo impren­di­to­riale e con parte di quel cir­cuito finan­zia­rio diven­tato sem­pre più cen­trale negli equi­li­bri eco­no­mici nel nord come nel sud del mondo. Per que­sta via, il nar­co­traf­fico si è in qual­che modo glo­ba­liz­zato, tra­sfor­mando la sua stessa «filiera pro­dut­tiva» e il pro­filo dei suoi protagonisti.

Vuol dire che l’economia della droga si è ristrut­tu­rata un po’ come un qual­siasi set­tore industriale?

In qual­che modo si. Con­sa­pe­voli che il proi­bi­zio­ni­smo, che ha fatto fin qui la loro for­tuna, potesse un giorno venire meno — come è suc­cesso di recente per la mari­juana in alcuni Stati degli Usa e, nelle ultime set­ti­mane, in Uru­guay -, i nar­cos hanno ini­ziato da tempo a dif­fe­ren­ziare le loro atti­vità, affian­cando sem­pre più spesso al traf­fico di droga quello di esseri umani e cer­cando di met­tere le mani sul petro­lio, sui gas natu­rali e sulla loro rete di distri­bu­zione. Allo stesso modo, non solo sarebbe ridi­colo pen­sare ancora ai nar­cos come dei gang­ster alla Al Capone, ma per­fino il para­gone con per­so­naggi come Pablo Esco­bar, il primo vero «signore» della droga che negli anni Ottanta annun­ciò l’emergere del nar­co­traf­fico su scala inter­na­zio­nale, risul­te­rebbe fuor­viante rispetto alla realtà odierna. I nar­co­traf­fi­canti di oggi, quelli che sono al ver­tice dei diversi «car­telli» ter­ri­to­riali che si sono spar­titi la carta geo­gra­fica del Mes­sico, sono degli impren­di­tori armati che ope­rano attra­verso società per azioni. Al posto dei vec­chi «padrini» che sem­bra­vano usciti da un film di Cop­pola, ci sono i con­si­gli di ammi­ni­stra­zione che muo­vono le loro pedine a Wall Street e che, con­tem­po­ra­nea­mente, non dispon­gono più di qual­che banda di strada, ma di veri e pro­pri eser­citi pri­vati equi­pag­giati con armi da guerra e elicotteri.

Uno dei suoi libri è dedi­cato ad uno di que­sti «eser­citi» cri­mi­nali, los Zetas, attivi nel nor­dest del paese, di che si tratta?

Nel caso spe­ci­fico degli Zetas ci tro­viamo di fronte ad un gruppo di ex mili­tari, pro­ve­nienti pre­va­len­te­mente dai corpi d’élite dell’esercito mes­si­cano, para­ca­du­ti­sti e com­man­dos, uomini spesso for­mati in qual­che pre­sti­giosa scuola mili­tare degli Stati Uniti o nella Scuola di guerra del Gua­te­mala, una delle più cele­bri e dure dell’intera Ame­rica Latina, che hanno scelto di diser­tare o abban­do­nare le forze armate per rag­giun­gere la rete del cri­mine orga­niz­zato. La loro pre­pa­ra­zione è ora messa al ser­vi­zio dei nar­cos. Nelle fat­to­rie che una volta ser­vi­vano per la lavo­ra­zione del mais, gli Zetas hanno creato dei veri e pro­pri campi di adde­stra­mento para­mi­li­tare dove for­mano gio­vani ban­diti, tal­volta poco più che ado­le­scenti, che fini­scono poi per diven­tare la «carne da can­none» delle guerre tra car­telli rivali che insan­gui­nano il paese. Gli ex mili­tari tirano le fila, ma a morire sono soprat­tutto que­sti gio­vani che la povertà e l’assenza di pro­spet­tive fanno affluire nei gruppi cri­mi­nali, nean­che si trat­tasse dell’ufficio di collocamento.

Vuol dire che dei gio­vani scel­gono volon­ta­ria­mente que­sta vita?

Si, se non hanno niente di meglio all’orizzonte. Alla pos­si­bi­lità di tra­sfor­marsi in «mac­chine da guerra» per i nar­cos, sapendo che potranno morire o che nel migliore dei casi fini­ranno in galera, i gio­vani delle regioni più povere del paese non hanno che un’alternativa, quella di cer­care di emi­grare negli Stati Uniti. Anche que­sta scelta com­porta però enormi rischi e sof­fe­renze visto che gli Usa stanno cer­cando di chiu­dere la fron­tiera. Detto in altri ter­mini, il ruolo assunto dal nar­co­traf­fico non rap­pre­senta che l’elemento più visi­bile della crisi pro­fonda che carat­te­rizza il paese, segnato da una cor­ru­zione dila­gante e da enormi dise­gua­glianze sociali.

In Mes­sico si vive una situa­zione para­dos­sale e ter­ri­bile. Da un lato abbiamo gente come Car­los Slim, il patron di una catena di risto­ranti che è con­si­de­rato uno degli uomini più ric­chi del mondo, per capirci dieci volte più facol­toso di Sil­vio Ber­lu­sconi, o come Mau­ri­cio Fer­nan­dez, l’ex sin­daco di San Pedro Garza Gar­cia, il muni­ci­pio che vanta il più alto red­dito pro capite del paese, cui ho dedi­cato il docu­men­ta­rio El Alcalde, che dopo aver com­bat­tuto i nar­cos con i loro stessi mezzi, un eser­cito pri­vato e vio­lenza in larga scala, sogna di costruire un parco pre­i­sto­rico con tanto di dino­sauri di pla­stica in un posto dove muo­iono ogni set­ti­mana decine di persone.

Dall’altro lato, in que­sto stesso paese gran parte della popo­la­zione vive in mise­ria e immersa in un clima di ter­rore a causa della vio­lenza dei nar­cos e della rispo­sta altret­tanto vio­lenta che arriva dall’esercito e dalle tante «mili­zie di auto­di­fesa» che sono nate tra i cit­ta­dini: una vera e pro­pria guerra che ha fatto oltre qua­ran­ta­mila vit­time in meno di dieci anni.Interi Stati del paese, come il Nuevo Leon, Tau­ma­li­pas e Michoa­can, sono di fatto nelle mani della cri­mi­na­lità: da que­ste parti regna la legge del più forte e una vio­lenza cieca e sel­vag­gia che non rispar­mia nessuno.


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