La svolta di Torino, nasce Fiat Chrysler Base in Olanda, tasse in Gran Bretagna
MILANO — Il nome: Fiat Chrysler Automobiles. La Borsa: Wall Street, «speriamo entro ottobre», e a seguire una bandierina in Piazza Affari. Le sedi: base legale in Olanda, residenza fiscale in Gran Bretagna. Nulla cambia nella mappa dei quartier generali operativi, delle fabbriche, degli Stati cui pagare le tasse (quando ci sono utili, e non è il caso né dell’Italia né del resto d’Europa). Ma inevitabilmente, nel giorno in cui il consiglio approva la road map del Lingotto formato globale, è sui nuovi passaporti esteri in arrivo per il gruppo che politica e sindacato concentrano l’attenzione. E le polemiche. Alcune di prevedibile presenzialismo partitico. Altre forse non esattamente centrate: Susanna Camusso, segretario della Cgil non invitata all’incontro post board tra l’amministratore delegato e le sigle firmatarie degli accordi aziendali, a caldo equivoca un po’ sull’aspetto Fisco e definisce «preoccupante che un gruppo come Fiat decida di andare» a versare le imposte «in un altro Paese». Per il resto, fioccano i classici schieramenti elettorali, dove più che il merito delle novità torinesi sembra contare il gioco pro o contro il governo. Gioco che non condiziona Enrico Letta. Non ha saputo a cose fatte, il premier: Sergio Marchionne e John Elkann l’avevano informato martedì mattina. Tutto il tempo per pensarci, quindi. Netta la linea che ne è uscita: «Sono convinto che la vicenda Fiat abbia da molto tempo cambiato completamente orizzonti e confini. Oggi è un attore globale». Per cui: «Penso che la questione della sede legale sia secondaria: contano i posti di lavoro, le macchine vendute, la competitività. E penso che tutti gli italiani debbano tifare perché la fusione abbia successo, le promesse sugli investimenti siano rispettate, i posti di lavoro ci siano e Fiat Chrysler sia uno dei più grandi gruppi automobilistici mondiali».
Non finirà qui, chiaramente. Anche se, alla fine, il Paese pare aver metabolizzato il trasloco legal-fiscale del Lingotto — e di Auburn Hills: pure gli Usa «perdono» le due sedi — la querelle terrà banco almeno per un po’. Senza peraltro alcuna chance di cambiare quello che ieri il consiglio ha deciso, «con l’obiettivo di costituire un’azienda che, per dimensioni e capacità di attrazione sui mercati finanziari, sia comparabile ai migliori concorrenti internazionali».
La fusione, e tutte le operazioni collegate, a quello punta. C’è moltissimo ancora da fare, e i conti approvati subito prima della rivoluzione societaria dimostrano che il terreno rimane accidentato. La vera grande sfida di Marchionne è ora portare tutti i marchi nell’alto di gamma, fuori dalla mischia delle auto «di massa» che, a chi produce in Italia, garantiscono perdite o comunque margini inesistenti. Per centrare l’obiettivo, deve riuscire nel rilancio di Alfa Romeo: un fallimento lì metterebbe a serio rischio l’intera strategia. E serviranno, naturalmente, soldi. Molti: gli otto miliardi di investimenti preannunciati per quest’anno — almeno un paio dei quali nel nostro Paese, tra Cassino e il completamento di Mirafiori, ma sarà il piano industriale ai primi di maggio a spiegare dettagli e priorità — funzioneranno da «assaggio».
Nel frattempo, sarà ancora transizione. Il 2013 si è chiuso bene (e ha confermato che, senza Chrysler, la molto più piccola Fiat sarebbe in perdita): 87 miliardi di fatturato, 3,4 di utile della gestione ordinaria, 1,9 di utile netto. Sono le previsioni per il 2014, e l’assenza di dividendo per «mantenere un elevato livello di liquidità» a fronte di un indebitamento in crescita «congiunturale» (vedi il pagamento dei 2,7 miliardi di euro a Veba, principale causa del preventivato aumento a 9,8-10,3 miliardi), che ieri hanno provocato una pioggia di vendite in Borsa. Quello, e gli scricchiolii dell’America Latina: fin qui macchina da soldi, ha già tagliato del 41% i relativi profitti. Così, per il 2014, l’utile netto dell’intera Fca viene dato da Torino in discesa a 600-800 milioni. Risultato del tutto in Piazza Affari: varie sospensioni al ribasso, chiusura a -4,1%.
Eppure, non è enfasi quella che fa dire a Elkann: «Il viaggio iniziato dieci anni fa» a partire da un’azienda di fatto fallita, culmina adesso nella nascita di un gruppo che «ci permette di affrontare il futuro» con «punti di forza differenti e complementari». E Marchionne, l’uomo che ha portato Fiat dagli 1,8 milioni di auto del 2003 ai 4,4 milioni di oggi, non vive solo «una delle giornate più importanti della mia carriera». Rivendica, a sé e ai suoi: «Abbiamo lavorato senza sosta per trasformare le differenze in punti di forza e per abbattere gli steccati nazionalistici e culturali. Ora possiamo dire di essere riusciti a creare basi solide per un costruttore globale con un bagaglio di esperienze e competenze al livello della migliore concorrenza».
La riorganizzazione societaria e di governance di questo progetto è parte integrante. Le stesse azioni della nuova holding olandese, che sostituiranno presto i vecchi titoli Fiat, premieranno con diritti di voto più pesanti i soci stabili, fedeli nel medio-lungo termine (il che metterà tra l’altro al sicuro la maggioranza Exor). Dopodiché sì, conferma Marchionne: «Il debito va ridotto e dunque il capitale verrà rafforzato» (niente aumento, però, sempre probabile un convertendo). E no, anche una volta completata la costruzione finanziaria, lui non lascerà a metà il progetto industriale: «Il numero di sfide non calerà. Ho detto che resterò almeno altri tre anni e confermo l’impegno». Certo, alla successione si lavora. Ma non serve, e «non sarebbe giusto», guardare all’esterno: «Sono circondato da una buona squadra. Il mio successore verrà da questo gruppo».
Raffaella Polato
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