La lezione americana sulla crisi dell’auto

by Sergio Segio | 15 Gennaio 2014 12:06

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Parlando con Ezio Mauro, nell’intervista del 10 gennaio, Sergio Marchionne dice questo, in sostanza, e l’ammissione è importante. Lo dice raccontando una storia di successo — la fusione tra Fiat e Chrysler — e tutte le fiabe sul mercato che guarisce senza Stato sisbriciolano.

Senza quasi accorgersene, l’amministratore delegato ridipinge anche l’immagine di se stesso: la figura thatcheriana dell’imprenditore che sfianca i sindacati più resistenti, promettendo un capitalismo che distruggendo crea, e poco importa se la società si disintegra. Si sbriciola anche quest’illusione, se c’è stata. Le Grandi Depressioni non sono redentrici; la Fabbrica Italia su cui giurò nell’estate 2012 è fallita.
La frase chiave nella narrazione di Marchionne mi è parsa la seguente: «La nostra fortuna è stata di poter trattare direttamente con il Tesoro (americano), con la task force del Presidente Obama: non con i creditori di Chrysler, come voleva la vecchia logica. Se no, oggi non saremmo qui». L’idea era di far rinascere Fiat «in forma completamente diversa », e solo lo Stato federale Usa poteva fronteggiare — mettendoci la faccia, e i soldi — una crisi depressiva che Marchionne definisce «spaventosa » («I manager uscivano per strada con gli scatoloni perché le aziende chiudevano (…) non so se mi spiego»). In ogni grande svolta, specialmente quando spavento e cupidigia divorano i mercati, solo la forza pubblica possiede lo sguardo lungo, il dovere solidale, la temerarietà, di cui son sprovviste le vecchie logiche.
L’amministratore delegato non lo dice espressamente ma la vecchia logica è quella, tuttora spadroneggiante, del mercato che crolla e si rialza come Lazzaro, senza però che nessuno lo richiami in vita. Si rialza spontaneamente, come Marchionne forse immaginò per un certo tempo: tagliando i costi del lavoro, secernendo guerre tra poveri, e tra poveri e sindacati. La redenzione è mancata: non poteva venire dagli investitori, né dal «sistema digestivo delle banche che si era bloccato».
La crisi iniziata nel 2007-2008 ha mostrato quel che pure era evidente, dopo i disastri degli ultimi secoli e in particolare dopo la Depressione del ’29. Il dogma del laissez-faire, dell’economia lasciata libera di farsi e disfarsi senza obblighi speciali, dello Stato che deve sottomettersi a questa benevola legge naturale e restringere al massimo la sua presenza, regolarmente s’è infranto contro il muro, smentito dai fatti. Obama ha «creduto» al progetto Fiat, e a un certo punto ha scavalcato gli spiriti animali del mercato (creditori, banche), incapaci di credere e digerire alcunché. Dice Marchionne che gli americani, a differenza degli europei e degli italiani, hanno una propensione, «quasi naturale », a incoraggiare i cambiamenti, la voglia di ripartire: ad «aprirsi al mondo e non chiudersi in casa, soprattutto quando intorno c’è tempesta ».
Proprio la sua narrazione tuttavia cela una verità più profonda: questa propensione non è affatto naturale.
Si risveglia quando la forza pubblica programma le mutazioni, dedica loro risorse. Quel che Baudelaire scrive a proposito del bello e della ragione vale anche per l’economia: tutte le azioni e i desideri del puro uomo naturale sono mortifere; tutto quel che è nobile e bello nasce dalla ragione e dal calcolo, dalla filosofia, dalle religioni e dall’artificio. Dal maquillage: da trucchi e belletti.
Così avvenne dopo la Grande Depressione, quando Roosevelt lanciò il suo New Deal, il patto contro la paura e la povertà. Il vecchio continente non fu da meno, e in fondo è ingiusto dire che noi europei, per cultura e storia, «siamo condizionati dal passato, e l’idea di chiuderlo per far nascere una cosa nuova ci spaventa ». Fu cosa nuova pensare, nel mezzo dell’ultima guerra, due cose simultaneamente: l’unità economica e politica dell’Europa, e lo scudo contro povertà e depressioni che è il Welfare. William Beveridge, che del Welfare fu l’artefice, si batté per ambedue gli obiettivi.
L’Europa non è geneticamente meno innovativa degli Stati Uniti. Se ha perso questa capacità, se come un Politburo s’aggrappa alla linea dell’austerità quasi fosse una linea di partito, se lo Stato italiano è un motore che ingoia le ricette recessive senza muoversi, non vuol dire che ereditariamente siamo inadatti. Significa che non possediamo l’ambizione politica — dunque la corporatura geografica — su cui può contare Obama, che non a caso si richiama più volte a Roosevelt. Non dimentichiamo che l’assistenza sanitaria universale è invenzione europea. Che Obama non sa come imporla a una destra enormemente sospettosa verso lo Stato. Chiudere il passato è difficile per lui come per noi. Anche lì capita che «porti un’idea nuova e trovi subito dieci obiezioni», come Marchionne dice dell’Italia.
Non so cosa pensi Marchionne della crisi nata nel 2007, ma qui importa il suo racconto e il racconto conferma che all’origine del male c’è l’assoggettamento dei poteri pubblici alle forze spontanee del mercato, al «puro uomo naturale». Un assoggettamento che continua a dispetto dei traumi subiti, come se il rimedio all’intossicazione fosse il veleno stesso che l’ha causata.
Questo perché l’economia del laissez-faire resta un’ideologia, proprio come ai tempi in cui John Maynard Keynes ne denunciò le insidie, le menzogne. Il suo saggio del 1926 sulla «Fine del laissez faire » andrebbe riletto ogni giorno dai Politburo europei e nazionali. Il liberismo del lasciar- fare è a suo parere un idolo appannato, un mostro letargico: sopravvive grazie all’inclinazione — perversa, comoda — a semplificare le complessità, a occultare le smentite. È una teoria darwinista, che seleziona il più forte e distrugge tutto quel che sta intorno: società, persone, Stati, democrazia. Chi vince, scrive Keynes, sono solo le giraffe col loro collo lunghissimo, che riescono a mangiare le ultime foglie rimaste in cima all’albero: gli animali col collo corto muoiono di fame. Il mercato lasciato a se stesso è quell’albero. Produce misantropia diffusa e diseguaglianze esiziali.
L’intervista di Marchionne è significativa perché avvalora la triste parabola delle giraffe: la recessione è alle spalle, ci dicono, la cima dell’albero è di nuovo piena di foglie, ma il prezzo è la sopravvivenza del più adatto. Anche la disuguaglianza è spaventosa, e spiega certe convergenze fra ideologi delusi del laissez-faire e i loro contestatori. Non è raro, ad esempio che il liberista Brunetta si dica d’accordo con Landini della Fiom, ancor ieri un eretico.
Non è detto che la svolta sia vicina. Non sappiamo se Marchionne ambisca sul serio a «dare forma e significato alla società del futuro». Se abbia ricordo del Piano Marshall da lui invocato nel giugno 2013: che creò coesione nazionale e stabilità,
ma grazie a immensi investimenti pubblici in Europa. Se il «sogno di cooperazione industriale a livello mondiale» favorirà davvero la reintegrazione («sempre che il mercato non crolli un’altra volta») di tutti i cassaintegrati Fiat.
Quel che resta, leggendo l’intervista, è l’amarezza per l’incapacità europea e italiana di attivarsi come Washington. L’Unione è divenuta una setta che riconosce i fatti solo se combaciano con le sue profezie e ideologie, scrive l’economista greco Yanis Varoufakis. Logica vorrebbe che fosse lei, per prima, a scommettere sulla «società del futuro ». Dovrebbe metterci la faccia e i soldi, come Obama. Dovrebbe divenire una Federazione. Con la storia che ha potrebbe perfino riuscire meglio di Obama, prigioniero spesso delle destre antistataliste.

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