by Sergio Segio | 14 Gennaio 2014 9:34
Le motivazioni della Consulta fanno luce così su una delle notti più buie della Repubblica. Per quasi dieci anni la democrazia italiana è stata stravolta, e i diritti dei cittadini-elettoriespropriati.
Insieme a molti altri disastri politici e istituzionali e ad altrettanti guasti economici e morali, questa è dunque la drammatica eredità che una destra populista e “sfascista” regala al Paese. La Corte costituzionale lo dice con assoluta chiarezza, spiegando le censure di illegittimità che riguardano i due vizi fondamentali di quella legge. L’abnorme premio di maggioranza , che in assenza di una ragionevole soglia minima di voti per competere all’assegnazione del premio stesso ha finito per «determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione». Il meccanismo delle liste bloccate, che rimettendo la scelta esclusiva dei candidati ai partiti ha privato «l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti», e ha ferito «la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione».
Il Porcellum è stato un veleno scientificamente inoculato nelle vene della nazione. Ha intossicato il Parlamento, riempiendolo di “nominati” al servizio delle segreterie. Ha innescato una micidiale crisi di rigetto nella società civile, spingendo moltitudini di elettori a cercare l’antidoto nell’anti-politica. Il dramma è che con questo “mostro” concepito dalla resistibile armata del Cavaliere abbiamo già votato due volte, eleggendo due Parlamenti. È vero che la Consulta si premura di chiarire ora che il principio di «continuità dello Stato» è comunque assicurato, e che la sua pronuncia non inficia le ultime tornate elettorali né delegittima le Camere appena elette.
Ma questo non è balsamo. Semmai è altro sale sulla ferita. Dal 2005, grazie alla “cura” berlusconiana, l’Italia è una democrazia violata. La legge elettorale, cioè la “regola” fondamentale che disciplina l’esercizio di un diritto inalienabile dei cittadini, ha violato palesemente la Costituzione. Ci sono voluti quasi dieci anni per certificare quello che era già chiaro allora. Meglio tardi che mai. Ma il rammarico resta, insieme all’indignazione.
Le motivazioni della Corte erano importanti non solo per comprendere le ragioni dell’incostituzionalità del Porcellum. Ma anche e soprattutto per capire quali paletti avrebbe fissato, nella prospettiva della riforma elettorale. I giudici hanno adottato una soluzione “aperta”, che di fatto non preclude nessuno dei modelli possibili, né il proporzionale né il maggioritario, variamente corretti e integrati. Purché il premio di maggioranza abbia una soglia minima, e a condizione che l’elettore abbia il diritto di scegliere. Riaffermati questi principi irrinunciabili, le motivazioni della Corte non sbarrano la strada a nessuna delle ipotesi messe in campo da Matteo Renzi. Il modello spagnolo può funzionare (purché le liste prevedano circoscrizioni ridotte e con pochi candidati), così come il Mattarellum corretto (purché si gradui adeguatamente il premio della parte proporzionale) o il doppio turno di lista (ribattezzato impropriamente il “sindaco d’Italia”, e purché sia introdotto il voto di preferenza o il listino “corto”).
Questa exit strategy indicata dalla Consulta è da un lato un’opportunità. Ma dall’altro lato un problema. Chi pensava (o sperava) che la Corte togliesse le castagne dal fuoco alla politica rimane deluso. La palla torna interamente nella metà campo dei partiti. E questo costringe il leader del Pd ad accelerare i tempi, e a rompere gli indugi. Renzi deve portare a casa un risultato entro il 20 gennaio, quando il dibattito approderà in Commissione alla Camera, e poi una settimana dopo in aula. Il leader, da solo, non ha i voti per fare una qualunque riforma. Ha bisogno di alleati. E ferma restando l’indisponibilità di Grillo, ha solo due forni ai quali rivolgersi. Quello di Berlusconi e quello di Alfano. Ma l’uno, per ora, è alternativo all’altro. E l’uno e l’altro sono pericolosi.
Berlusconi può discutere forse solo di modello spagnolo, che è tendenzialmente bipartitico, ma non vuole né il Mattarellum corretto né il doppio turno di lista (gli elettori di destra storicamente non vanno a votare due volte in due settimane). Alfano può discutere del “sindaco d’Italia”, ma non vuole né il Mattarellum corretto (con i collegi uninominali sarebbe costretto a tornare nelle braccia del Cavaliere) né il modello spagnolo (con uno sbarramento al 15% rischierebbe di star fuori dal Parlamento). Renzi ha avuto il merito di forzare il modulo, e di mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità, offrendo tre ipotesi di intesa possibile.
Ma ora, nell’indecisione altrui, è costretto a scegliere. Se tratta con Alfano, deve smettere di bastonare quotidianamente il Nuovo Centrodestra, e appiattirsi su un governo Letta dal quale invece si vuole sistematicamente e ostinatamente distinguere. Se tratta con Berlusconi, deve accettare l’idea dell’eventuale «patto col diavolo». Ma sapendo bene cosa l’aspetta. Non solo una probabile crisi di governo (eventualità cui Alfano sarebbe costretto per la rottura del patto di coalizione). Ma anche una possibile imboscata (“specialità” nella quale il Cavaliere è maestro indiscusso). Berlusconi potrebbe portare il sindaco di Firenze a un passo dall’accordo sul modello spagnolo, per poi far saltare il tavolo all’ultimo minuto, incassando in un colpo solo la caduta del governo delle Strette Intese e le elezioni anticipate con il proporzionale puro (cioè la morte politica di Renzi).
È un rischio concreto e non fantapolitica. Per convincersene, basta chiedere al D’Alema della Bicamerale e al Veltroni del 2008. Una “lezione” che non possiamo e non dobbiamo dimenticare.
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