La Fed snobba la crisi dei Paesi emergenti
NEW YORK — Le Borse precipitano, travolte dalla crisi dei Paesi emergenti. Ma la politica monetaria degli Stati Uniti prosegue implacabile la sua normalizzazione, che è proprio la causa prima di queste turbolenze. La Federal Reserve celebra «l’ultima volta» di Ben Bernanke e l’ascesa della prima donna al suo vertice, confermando la sua strategia. Nel meeting di addio di Bernanke che lascia il posto a Janet Yellen, la banca centrale americana riduce di altri 10 miliardi di dollari i suoi acquisti di bond sul mercato. Dunque le operazioni che creano liquidità vanno avanti, su scala più ridotta: siamo a quota 65 miliardi (l’anno scorso la Fed comprava bond al ritmo di 85 miliardi al mese). Resta una politica monetaria espansiva a sostegno dell’occupazione. E i tassi rimarrano inchiodati a zero per parecchio tempo. Tuttavia la Fed giudica che l’economia americana continua a guarire e quindi a termine non avrà bisogno di questa terapia eccezionale. «La crescita si è rafforzata. La disoccupazione è scesa, anche se resta elevata. Il miglioramento continua ». Nessun accenno alle turbolenze che affliggono i Brics e altre nazioni emergenti.
Malgrado gli scossoni che hanno svalutato brutalmente la lira turca, il peso argentino, questo focolaio d’instabilità non conquista neppure una citazione nel documento della Fed. La banca centrale non considera ancora che le «periferie » possano turbare la locomotiva Usa. Del resto la stessa Fed è «il colpevole di ultima istanza» di quel che sta accadendo altrove: dalla Turchia all’Argentina, dal Brasile al Sudafrica. E’ proprio perché la banca centrale americana ha cominciato a rallentare la sua attività “stampa-moneta”, che l’umore dei mercati è girato. I capitali che erano andati a cercare investimenti esotici in Asia e America latina, ora si ritirano. L’alta marea è finita. La Fed è convinta che questa fosse la cosa giusta da fare: il quantitative easing (acquisto di bond per dare più credito all’economia) si giustificava come rimedio estremo per mali estremi. Ora l’emergenza in America sta finendo, la Fed ne è convinta, e ne trae le conseguenze. Anche se altri pagano il costo. D’altronde il credito facile di Bernanke poteva creare una “bolla” così come lo aveva fatto il suo predecessore Alan Greenspan al quale si imputano gli eccessi degli anni Novanta e anche la speculazione sui mutui subprime che innescò il disastro del 2008. Meglio bucare la bolla speculativa dei Brics, anziché continuare a gonfiarla con un prolungamento di acquisti di bond.
Bernanke si è conquistato il suo posto nella storia, proprio grazie alla terapia d’urto che ha applicato negli ultimi quattro anni. Verrà ricordato come l’artefice di un esperimento senza precedenti, una creazione di moneta dell’ordine dei 4.000 miliardi. E’ stato anche investito da un ruolo anomalo di supplenza: la banca centrale è diventata il principale sostegno alla crescita, dopo che l’iniziale manovra anti- recessiva di Obama non ha avuto altri seguiti per via dell’ostruzionismo repubblicano al Congresso. Con la politica di bilancio impraticabile per la paralisi politica, il ruolo della Fed si è ingigantito a dismisura. Bernanke prima di fare il banchiere centrale era stato un esperto di storia della Grande Depressione: oggi nell’ora dell’addio spera di essere ricordato come l’uomo che contribuì a evitare un bis degli anni Trenta dai costi sociali simili.
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Lettera aperta a Marchionne
Gentile dottor Marchionne,
l’Italia è messa male, la Fiat peggio. Ci rivolgiamo a lei, perché le sorti del Paese si sono sempre intrecciate, nel bene e nel male, con quelle del suo principale gruppo manifatturiero. Oggi la Fiat conta meno di ieri, ma conta sempre tanto. Dopo il tracollo del 2002, ha fatto molto sotto la sua guida. Ma ora questo Paese si attende un cambio di passo. Necessario per il futuro dell’azienda, sarebbe d’esempio anche per l’azione di governo.