Israele saluta l’ultimo capo muore Ariel Sharon dopo otto anni di coma

by Sergio Segio | 12 Gennaio 2014 9:21

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GERUSALEMME. IL LUNGO addio di Ariel Sharon si è concluso ieri pomeriggio nel Tel Hashomer Hospital di Tel Aviv, dopo otto anni di coma.
E per Israele è la fine di un’epoca perché l’ultimo grande generale israeliano, un capo militare controverso, è stato il protagonista di una lunga e tumultuosa carriera politica che si intreccia con la Storia di questo Paese. I figli in questi anni gli hanno fatto visita regolarmente parlandogli, facendogli ascoltare la musica preferita, sentire l’odore dei cibi che amava. Pur avendo gli occhi chiusi, a volte muoveva le palpebre o le dita delle mani, movimenti involontari puntualmente registrati dalle infermiere, come si trattasse di un
diario di guerra. Ma da quel sonno comatoso iniziato nel gennaio del 2006 Sharon non si è mai svegliato. All’uomo che “la metà di noi amava odiare e l’altra metà detestava amare”, come ha scritto Haaretz, oggi buona parte dei politici israeliani rende omaggio preferendo mettere l’accento sul combattente eroico del 1967, che salvò Israele dalla disfatta nel Sinai nel 1973, piuttosto che il politico che guidò l’invasione del Libano e decise il ritiro dalla Striscia di Gaza nel 2005.
Oggi la salma sarà esposta davanti alla Knesset per l’omaggio pubblico e domattina i solenni funerali di Stato prima di essere sepolto ai “Sicomori”, la sua amata fattoria nel deserto del Negev. «Rendo omaggio al grande comandante che resterà per sempre nel cuore di Israele», ha fatto sapere il premier Netanyahu, rompendo brevemente l’abituale silenzio durante lo shabbat. Era un «mio caro amico», sottolinea il presidente Shimon Peres, «uno dei più grandi difensori di Israele». Fanno quasi festa invece i palestinesi dall’altra parte del Muro. «Era un criminale di guerra», dice senza mezzi termini Jibril Rajub, uomo di punta di Al Fatah, il partito del presidente Abu Mazen «Doveva essere portato davanti alla Corte penale internazionale per i massacri in Libano», dice ancora Rajub che fu capo dei “servizi” sotto Arafat, il “nemico numero uno” che Sharon cercò di far fuori in ogni modo e con ogni mezzo. Scontata la reazione di Hamas: «non riusciremo mai a essere dispiaciuti per la sua morte».
Eppure dopo averli combattuti per tutta una vita, alla fine della sua parabola Sharon si era convinto che era necessario un accordo di pace stabile con i palestinesi, e per farlo lasciò il Likud per crearne uno nuovo, Kadima. L’anziano generale, in un memorabile discorso alla Knesset, prima del ritiro da Gaza nell’agosto del 2005, spiegò: «Ho combattuto tutte le guerre israeliane, ho imparato dalla mia esperienza che senza una vera forza non abbiamo la possibilità di sopravvivere in questa regione, ma ho anche imparato
che la baionetta da sola non può decidere l’aspra disputa per questa terra». I paradossi sembrano essere stati il filo conduttore di tutta la sua vita. Militare nel corpo e nell’anima, ma sempre sull’orlo della Corte Marziale. Ideatore e promotore degli insediamenti colonici nei Territori palestinesi occupati, ma anche del ritiro da Gaza e la distruzione delle colonie che aveva contribuito a fondare. Yitzhak Rabin diceva che «uno come lui è una benedizione per lo Stato maggiore, dieci sono una catastrofe nazionale», poi cambiò opinione dopo l’avventura in Libano nel 1982. Sconfitto l’Olp e costretto Yasser Arafat alla fuga in Tunisia sembrava finita, ma l’attentato contro Bashir Gemayel scatenò la rabbia dei falangisti alleati di Israele contro i campi palestinesi di Beirut. A Sabra e Chatila vennero trucidati 3.500 civili sotto gli occhi delle truppe israeliane, che non mossero un dito per fermare il massacro che andò avanti per giorni: non avevano ricevuto nessun ordine di fermarli. Per Sharon sembrò l’inizio della fine. Ma seppe risorgere ancora una volta, diventando la voce dei coloni, della destra più radicale del Likud. Una scelta che culminò con la sua provocatoria passeggiata sulla Spianata delle Moschee che accese un nuovo sanguinoso incendio, la II Intifada, ma che lo portò comunque alla vittoria elettorale e alla carica di premier nel 2001.
Dopo l’ennesima strage nel 2004 mandò i suoi tank fino a Ramallah, rendendo Yasser Arafat di fatto un prigioniero. Ma capì che tutto questo non avrebbe fermato l’ondata di terrore. Altre considerazioni presero forma. Il “disimpegno” dalla Striscia nel 2005 fu uno degli atti più controversi della storia di Israele. Arik, il “re d’Israele” per i coloni, il generale delle mille battaglie, diventò per la destra ultrà un traditore, i rabbini lo maledissero augurandogli una rapida fine e le pene dell’inferno. Il leader di questa destra estremista era nel suo partito: con Benjamin Netanyahu lo scontro fu inevitabile. Sharon lasciò il Likud e fondò un nuovo partito centrista, favorevole al dialogo con i palestinesi. Una grande sfida di cui non vedrà gli sviluppi. Sei mesi dopo un primo ictus e tre settimane dopo una vasta emorragia cerebrale lo ridusse in uno stato di coma da cui non si è mai risvegliato. La stagione del “leone d’inverno” si concluse in quel gennaio 2006, c’era la neve nelle strade di Gerusalemme.

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