In difesa del pluralismo

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Le demo­cra­zie del dopo­guerra, sep­pur in forme diverse, ave­vano indi­vi­duato tre dispo­si­tivi prin­ci­pali. Il primo erano i par­titi. A metà strada fra Stato e società, si occu­pa­vano di aggre­gare gli inte­ressi. Il secondo dispo­si­tivo erano le poli­ti­che di con­tra­sto delle disuguaglianze.

Ridurle, in pri­mis quelle sociali e eco­no­mi­che, signi­fi­cava spun­tare le aspe­rità più insi­diose del plu­ra­li­smo. Il terzo dispo­si­tivo era l’aperto rico­no­sci­mento della natura con­trat­tuale della poli­tica demo­cra­tica. Ferma restando la dia­let­tica tra mag­gio­ranza e oppo­si­zione, la poli­tica si fon­dava su con­trat­ta­zioni, e com­pro­messi, tra le parti del plu­ra­li­smo: in sede par­la­men­tare, tra i par­titi, oppure coin­vol­gendo i por­ta­voce degli inte­ressi orga­niz­zati, come nel caso dei patti neo­cor­po­ra­ti­vi­smi.
Gra­zie a que­sto mix le società demo­cra­ti­che sono state gover­nate per la lunga sta­gione della rico­stru­zione post­bel­lica. Fin­ché esso non è rima­sto vit­tima del suo suc­cesso. Ovvero, da una canto ha gover­nato il plu­ra­li­smo, dall’altro ne ha per varie ragioni favo­rito l’esplosione, occorsa negli anni 70. Ponendo l’esigenza di aggior­nare i dispo­si­tivi di con­te­ni­mento e governo del plu­ra­li­smo.
La revi­sione non è avve­nuta ovun­que allo stesso modo. In Ger­ma­nia, Austria e Scan­di­na­via l’aggiornamento è stato mar­gi­nale. Non tutto va per il meglio. Anche in quei paesi si pon­gono pro­blemi di governo. Se la loro situa­zione eco­no­mica è com­pa­ra­ti­va­mente bril­lante, sono comun­que sorti (anche in Ger­ma­nia) minac­ciosi movi­menti popu­li­sti. Ma i dispo­si­tivi con­trat­tuali intro­dotti nel dopo­guerra per­si­stono. Anzi, in Ger­ma­nia come in Austria, sono accetti per­fino i governi di grande coa­li­zione.
In altri paesi si sono seguite altre strade. Ove spicca quella che incro­cia la mas­sima disper­sione del plu­ra­li­smo con una ver­ti­ca­liz­za­zione mar­cata dell’autorità. Da un canto si lascia spa­zio al plu­ra­li­smo, addi­rit­tura a livello indi­vi­duale — basti pen­sare a quanto è suc­cesso al mondo del lavoro — ridu­cendo il ruolo dei par­titi e dei sin­da­cati. Dal lato oppo­sto il potere si con­cen­tra nell’esecutivo, emar­gi­nando par­la­mento e par­titi.
È que­sta seconda solu­zione più felice dell’altra? Sin­ce­ra­mente non par­rebbe. Per­ché il plu­ra­li­smo uffi­cial­mente estro­messo dalla sfera della rap­pre­sen­tanza poli­tica pun­tual­mente riaf­fiora nella sfera del governo. È sem­mai un plu­ra­li­smo selet­tivo, che emar­gina gli inte­ressi fon­dati sulla potenza dei numeri: spe­cie il lavoro dipen­dente. Ciò mal­grado, posto che le poli­ti­che con­dotte in que­sti regimi demo­cra­tici sono uni­la­te­rali e visto­sa­mente dise­gua­li­ta­rie, non si direbbe che siano più effi­caci. Sul piano delle per­for­mance eco­no­mi­che il primo modello sem­bra più sod­di­sfa­cente, men­tre anche qui il popu­li­smo d’estrema destra non manca di riscuo­tere suc­cessi elet­to­rali inquie­tanti.
Dove sta l’Italia in tutto que­sto? Pro­ve­nendo da una sto­ria di con­trat­tua­liz­za­zione e par­ti­tiz­za­zione molto spinta, dai primi anni ‘90 l’Italia ha ten­tato di rin­ne­gare deci­sa­mente il suo pas­sato e con­for­marsi al secondo modello. Con esiti non delu­denti, ma disa­strosi. Il fal­li­mento più cla­mo­roso è quello dell’ultimo governo Ber­lu­sconi. Figlio d’una legge elet­to­rale inde­cente come quella cas­sata dalla Con­sulta, è il governo che ha potuto disporre della mag­gio­ranza più ampia nella sto­ria del paese. Ma pochi governi sono stati più impo­tenti. La legge elet­to­rale Cal­de­roli aveva fatto giu­sti­zia som­ma­ria d’ogni plu­ra­li­smo poli­tico. Salvo che, ricac­ciato verso l’esterno, il plu­ra­li­smo è riaf­fio­rato con pre­po­tenza entro le forze poli­ti­che di governo, non solo para­liz­zan­done l’azione, ma avve­le­nan­dola oltre l’immaginabile. Igno­riamo l’infimo livello morale e l’assoluta incom­pe­tenza del ceto poli­tico di cen­tro­de­stra. I disa­stri da esso per­pe­trati sono ampia­mente spie­ga­bili già con l’estrema con­trad­dit­to­rietà degli inte­ressi che si anni­da­vano al suo interno.
Risul­tati non migliori ha con­se­guito l’analoga revi­sione mag­gio­ri­ta­ria dei mec­ca­ni­smi di governo nelle ammi­ni­stra­zioni locali. A far la dif­fe­renza è la pre­senza di tra­di­zioni ammi­ni­stra­tive di ben diversa qua­lità. In linea gene­rale le ammi­ni­stra­zioni locali mal gover­nate prima della riforma hanno segui­tato ad esserlo e vice­versa. Non solo. Ma non poche ammi­ni­stra­zioni di buona tra­di­zione sono andate cla­mo­ro­sa­mente in malora una volta affi­date a sin­daci incom­pe­tenti e affa­ri­sti.
Stando così le cose, c’è mate­ria per riflet­tere. Sdram­ma­tiz­zando anzi­tutto il tema della legge elet­to­rale. Ne va fatta una decente. Ma la legge elet­to­rale non risolve di per sé alcun pro­blema. Anzi, rischia di aggra­varli. L’elezione del sin­daco d’Italia non sarebbe comun­que un pro­gresso rispetto all’abominevole por­cel­lum, in quanto, die­tro più pre­sen­ta­bili fat­tezze, ripro­por­rebbe una mag­gio­ranza abnorme e gli incon­ve­nienti che ne con­se­guono. Per­ché non pren­dere allora sul serio l’ipotesi di tor­nare a qual­che forma di con­du­zione con­trat­tuale della cosa pub­blica? La con­trat­ta­zione, si badi, c’è sem­pre. Ma alle tor­bide con­trat­ta­zioni tra fazioni poli­ti­che e comi­tati d’affari, non è forse pre­fe­ri­bile una con­trat­ta­zione aperta, alla luce del sole, che dia spa­zio anche agli inte­ressi della stra­grande mag­gio­ranza della popo­la­zione, quella che non ha lob­bies che la rappresentino?


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